Il caso Kerrigan

Tonya Harding e Nancy Kerrigan

Tonya Harding e Nancy Kerrigan (© Getty Images)

 

Gelosia di ghiaccio

La fatica è sospesa in un perenne sorriso che, da solo, sopporta tutti gli sforzi. I muscoli tesi nascosti sotto abiti svolazzanti, un tripudio di colori e lustrini. Nel pattinaggio sul ghiaccio la priorità è lo spettacolo: l’apparenza perfetta dei volteggi, l’imperturbabilità che sembra tenere il ritmo della musica, non è concesso esprimere altro se non eterea eleganza. Il resto, l’impegno costante, la tenacia, rimane oscurato, lontano dalle luci che accendono lo show sulla pista. I corpi si sollevano in salti rapidi e si posano al suolo con altrettanta grazia. Le cadute, quando capitano, non fanno rumore. È un attimo rialzarsi, come se nulla fosse successo, perché la violenza cova sul fondo, dove le lame di ferro aggrediscono il ghiaccio.

Quell’elemento, così particolare, costituito da una curiosa ambivalenza: in grado di ferire, poi sciogliersi. Per tradizione rappresenta l’arma perfetta, dei suoi delitti non è colpevole, poiché scompare a tradimento, come se non potesse in realtà nuocere più di tanto.

La pattinatrice Tonya Harding era fatta della stessa sostanza del ghiaccio, si avvaleva dello stesso subdolo inganno. Capelli dorati, occhi chiari e tanta voglia di vincere compressa dietro un sorriso che appariva sempre troppo duro per essere ricambiato. Quel bisogno di essere la migliore soffocato in allenamenti massacranti, tutta la sua rabbia concentrata nei movimenti di quelle lame, poi, quando muscoli e fatica non erano più sufficienti, la progettazione di un piano diabolico per eliminare la concorrenza.

Il 6 gennaio 1994 nel Palazzetto del Ghiaccio di Detroit si svolgevano i campionati nazionali per qualificare le prime due atlete alle Olimpiadi. Tonya era fra le pattinatrici in gara, ma non la sola.

Le sorridenti Tonya e Nancy

Le sorridenti Tonya e Nancy  durante una gara di pattinaggio (© Getty Images)

 

Fra le altre nessuna, a suo avviso, poteva aggiudicarsi la nomina di rivale, fatta eccezione per Nancy Kerrigan. Dolce, radiosa, l’unica che col minimo sforzo di un sorriso otteneva l’adorazione  del pubblico. Quel giorno, Nancy, uscita dalla pista si apprestò a riporre la protezione in legno sulle lame come d’abitudine, poi si avviò verso l’uscita del palazzetto. Qui, in un pomeriggio come tanti, l’attendeva l’agguato, cogliendola di sorpresa mentre rilasciava un’intervista per il Pittsburg Sport Gazette. I suoi progetti olimpici vennero troncati dal colpo ben assestato di una mazza in metallo contro il suo ginocchio destro. Riuscì appena a scorgere il profilo del suo aggressore: un uomo vestito di nero, dalle movenze felpate, che scomparve con la stessa rapidità con cui era venuto. Poi ad assalirla fu solo un dolore lancinante.

Nancy crollò a terra fra le lacrime, le sue urla rimbombarono per tutto il palazzetto. «Why?» singhiozzava, «Why now?». «Perché?» e soprattutto: «Perché adesso?» In uno dei momenti culmine della sua carriera si affacciava la terribile prospettiva di non poter più gareggiare.

Uno dei suoi primi soccorritori fu il padre, Daniel, il sostenitore di sempre: la tenne in braccio come una bambina, in attesa dell’intervento dei medici. Fortunatamente il danno riportato si rivelò lieve: una contusione all’incavo del ginocchio destro, tale, però, da pregiudicarle la partecipazione alle qualificazioni per le Olimpiadi. Restava un’amarezza difficile da spiegare. L’assalitore senza volto si era dileguato e Nancy tentava invano di identificarlo. Nel frattempo, Tonya Harding si guadagnava la partecipazione alle Olimpiadi, affiancata dalla giovanissima Michelle Kwan.

Un unico sospetto

Le indagini avviate dalla polizia in tempi rapidissimi strinsero la cerchia dei sospettati intorno alla Harding, individuata come mandante dell’aggressione. A svelare il coinvolgimento di Tonya nella vicenda fu una registrazione che riportava la conversazione svoltasi fra Jeff Gillooly, ex marito della Harding, e altre quattro persone mentre architettavano l’agguato. Jeff prometteva una ricompensa di 6500 dollari ai suoi collaboratori a lavoro concluso e si assicurava di registrare la riunione perché tenessero fede agli accordi presi.

Gli altri cospiratori erano Shawn Eckardt, amico di infanzia di Gillooly, un bodyguard di oltre 140 chili, Derrick Smith ed il nipote di quest’ultimo Shane State, incaricato in prima persona di attuare il piano. Il nastro si rivelò una prova schiacciante per dimostrare la colpevolezza dei quattro che, ben presto, si ritrovarono in carcere a gridare a gran voce vendetta attraverso il nome della Harding.

La pattinatrice, tuttavia, persisteva nel proclamarsi innocente e, a parte le accuse cariche d’astio dell’ex marito, non si affacciavano prove concrete ad incolparla. Il grande manovratore della vicenda risultava essere Jeff e, fatta eccezione per i suoi trascorsi sentimentali con la Harding, non c’erano altri elementi a collegare i due. La federazione sportiva americana, nel dubbio, decise di ammettere comunque l’atleta ai Giochi, sostenendo, fra le righe, che un suo volontario ritiro sarebbe stato ugualmente gradito.

Tonya, per tutta risposta, minacciò una causa legale miliardaria alla federazione se avesse revocato la sua convocazione olimpica. Il denaro restava il suo ultimo strumento di lotta, dato che nulla era andato secondo i piani. Nancy Kerrigan, infatti, venne ammessa alla competizione con uno strappo alle regole, a scapito della tredicenne Michelle Kwan. La sua assenza alle qualificazioni si considerò più che giustificata e, tenuto conto degli ottimi risultati precedenti, una scappatoia al regolamento le consentì di prendere parte alle Olimpiadi. L’opinione pubblica si divise di fronte ad una rivalità che aveva preso le forme delle pagine di cronaca: in America quattro persone su dieci ritenevano la Harding colpevole dell’agguato alla Kerrigan.

Le Olimpiadi di Lillehammer

La tensione degli interrogatori si era addensata sulle spalle di Tonya mettendola sotto pressione più della durezza degli allenamenti. A Lillehammer, in Norvegia, luogo prescelto per quelle Olimpiadi di ghiaccio, la Harding si presentò duramente provata. Il suo ben noto caratteraccio appariva accentuato, il suo sguardo provocatorio, il suo sorriso una gelida smorfia.

Il 25 febbraio 1994, giorno della prova decisiva, le si ruppe un laccio dello scarponcino durante il riscaldamento costringendola a un ritardo nel backstage. Giunse così in pista visibilmente nervosa, mentre la folla la acclamava a gran voce infervorata da quei minuti di attesa. La performance si rivelò deludente.

La sconfitta di Tonya a Lillehammer

La sconfitta di Tonya a Lillehammer (© Getty Images)

 

Tonya sbagliò il suo programma ed ebbe una crisi di nervi così violenta da spingerla a trascinarsi fino al banco dei giudici fra i singhiozzi. Qui, in preda ad un pianto convulso, posò la gamba sinistra lunga distesa di fronte al giudice di gara per mostrare il laccio rotto, ed implorò fra le lacrime di poter ripetere l’esercizio. Verificato il problema, le venne accordato il permesso. Venti minuti dopo, Tonya era di nuovo in pista: si aggiudicò l’ottavo posto, mentre Nancy Kerrigan vinceva la medaglia d’argento dietro l’ucraina Oksana Bajul, oro.

L’ammissione di colpevolezza

Quell’ottava posizione fu l’ultima di Tonya Harding, segnò la fine dei suoi volteggi sulle lame.
Il 7 marzo 1994 si dichiarò colpevole di intralcio alle indagini del caso Kerrigan. Una scelta dettata dalla decisione di patteggiare la pena, in cambio dell’impegno della procura di non incriminarla per nessun altro reato commesso. Le conseguenze furono pesanti e definitive: le venivano imposte le dimissioni dalla squadra americana di pattinaggio. E non solo: venne condannata a tre anni di libertà vigilata, all’obbligo di 500 ore di lavoro sociale, oltre a un versamento di 100000 dollari di multa. Pagò anche un ingente rimborso spese alla procura distrettuale, e fu costretta a versare una cospicua somma ad un fondo di beneficenza per atleti.

Vista la sua carriera distrutta senza possibilità d’appello, decise di dedicarsi alla boxe, senza grandi risultati. Lei che era stata la seconda donna, dopo Midori Ito, ad eseguire un “triplo Axel”, un salto con partenza in avanti molto complesso, in una competizione ufficiale, diceva per sempre addio al pattinaggio. I volteggi dalla tecnica impeccabile che l’avevano resa celebre non valevano nulla, ora. Di nuovo i suoi sforzi sbiadivano dietro il sorriso onesto, aperto di chi, come Nancy Kerrigan, solcava il ghiaccio senza aggredirlo, non lasciava correre il suo odio sulle lame.

Tonya, invece, quel ghiaccio se lo portava nel cuore da molto tempo ormai e le era impossibile scioglierlo. Fin da quando, bambina, gareggiava sotto la pressione della madre che le aveva regalato i primi pattini al suo terzo compleanno. Più che un dono, un’imposizione destinata a segnare il percorso di una vita. LaVona Golden lavorava part-time come cameriera, spendendo quei pochi soldi nell’attività sportiva della figlia da cui attendeva un riscatto alla propria condizione. Le confezionava personalmente i costumi per le gare cercando di compensare quel lato poco femminile nell’atteggiamento di Tonya, educata intanto dal padre a sparare con il fucile e riparare motori. Le tensioni familiari, i continui divorzi della madre si riflettevano su quella bambina bionda spinta ostinatamente dai genitori in direzioni opposte.

Un podio a stelle e strisce: Yamaguchi, Harding e Kerrigan

Un podio a stelle e strisce: Yamaguchi, Harding e Kerrigan (© Getty Images)

 

Le sue movenze dure, l’eleganza mancata, così poco consone ad una pattinatrice, ostacolavano la buona riuscita delle sue performances. Si agitavano in lei forze ostili. A diciotto anni fuggì da quella situazione familiare soffocante sposando Jeff Gillooly con cui instaurò una relazione burrascosa, tanto da giungere a minacciarlo con una pistola nell’ottobre del 1993, dopo il divorzio. I due in seguito si riconciliarono, tanto che fu Jeff il principale cospiratore del caso Kerrigan. Il rancore di Tonya cresceva, indirizzato contro Jeff, contro la madre, contro se stessa; fu solo l’incontro con Nancy a tramutarlo in odio.

L’apoteosi di una rivalità

Nancy e Tonya si incrociarono per la prima volta nel 1988, ai campionati nazionali americani.
Tonya, pur essendo più giovane, era già alla sua terza partecipazione ai nazionali, giunse in quinta posizione riconfermando il risultato dell’anno precedente. La diciannovenne Nancy, invece, terminò dodicesima.

Conquistato il terzo posto ai campionati nazionali del 1989, la Harding individuò un obbiettivo ben preciso: le Olimpiadi di Albertville, in Francia. L’ascesa di Nancy, però, cominciò ad ostacolare le sue prospettive.

La Kerrigan otteneva risultati sempre più convincenti: guadagnandosi il secondo posto ai campionati nazionali e, nello stesso anno, anche ai mondiali dietro Kristi Yamaguchi. La vita di Tonya proseguiva turbolenta, fra tensioni familiari ed un rapporto difficile con l’ex marito, mentre Nancy abbagliava l’America con la parabola della famiglia felice. Suo padre era il suo più grande sostenitore e la madre, Brenda, diventata cieca quando la figlia aveva appena un anno di vita, seguiva le sue performance sul ghiaccio con l’aiuto di un monitor speciale. Inoltre, Nancy poteva contare sull’appoggio dell’intera comunità di Stoneham, nel Massachussets, sua cittadina natale, dove tutti sostenevano orgogliosi, anche finanziariamente, un’atleta di talento. La Kerrigan si era avvicinata al ghiaccio con naturalezza, in famiglia si trattava di una tradizione, dato che i fratelli maggiori giocavano ad hockey, ed ora quel gioco iniziato per caso si stava trasformando nella ragione del suo successo. Ad Albertville la medaglia di bronzo olimpica fu sua, al fianco delle impareggiabili Kristi Yamaguchi e Midori Ito. Tonya si posizionò quarta, vedendo così sfumare il suo grande sogno.

Nancy sembrava batterla sotto tutti i punti di vista: le sue doti atletiche passavano in secondo piano di fronte all’innata eleganza della rivale, così attenta all’immagine e alla leggerezza nei movimenti. Era stato il semplice vestito bianco di Nancy, confezionato dalla stilista Vera Wang, a fare notizia alle Olimpiadi del 1992.

Il colpo duro per Tonya venne con un trafiletto del New York Times che esacerbò il suo risentimento nei confronti di Nancy: «Nelle competizioni l’abito aiuta», scriveva un giornalista, «e l’abito di Tonya Harding certamente non aiuta». Il declino psicologico della giovane e tormentata Harding fu inevitabile.

Si era aggiunto l’ultimo strato di ghiaccio in quell’anima ferita, ormai più dura dell’acciaio. Tonya iniziò ad architettare piccoli tranelli per indebolire la rivale, soprattutto sul piano mediatico. Giunse addirittura ad inviarsi delle finte minacce di morte per apparire più docile ed indifesa. Le sue diavolerie culminarono nel terribile piano del ’94. Un’aggressione vigliacca, per mano di un sicario; forse Tonya credeva che tutto si sarebbe sciolto, prima o poi, come il ghiaccio. La differenza è che nella coscienza una traccia rimane.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

 

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