Gabriella Dorio

Gabriella Dorio (© Getty Images)

Gabriella Dorio (© Getty Images)

 

I 1.500 m di “Riccioli d’oro”

«Vincerò un’Olimpiade» Così disse, appena dodicenne, Gabriella Dorio ai compagni di scuola dopo la sua prima emozionante vittoria allo Stadio dei Marmi, durante una corsa campestre. Un sogno – forse dettato dall’entusiasmo del momento, ma non per questo meno sincero – che l’accompagnerà per buona parte della sua vita futura, fino alla conquista dell’agognata medaglia d’oro all’Olimpiade di Los Angeles nel 1984.

Tutto era cominciato come un gioco, complice quel desiderio di correre alimentato dalla vivacità infantile, però quella ragazzina bionda e minuta ebbe presto ben chiaro quanto lo sport potesse diventarle un alleato formidabile, su tutti i fronti. Correre significava sfidare i propri limiti, non solo fisici ma anche psicologici, vincere quella timidezza che troppo spesso la riduceva al silenzio. Eppure, se in altri campi la sua presenza si rivelava discreta, in gara diventava perfino ingombrante, soprattutto per le sue avversarie.

Gabriella all'inizio della carriera

Gabriella all’inizio della carriera

 

Il primo traguardo importante Gabriella lo ottiene con la vittoria sui 1.000 m ai Giochi Studenteschi della Gioventù nel 1971, un’esperienza che le permette di mettersi in luce e che funge da trampolino di lancio per le sue conquiste future. Seguono infatti diversi primati nelle categorie giovanili: appena due anni dopo si aggiudica l’ottava posizione negli 800 m ai Campionati Europei Juniores e nel 1974 occupa già il nono posto nei 1.500 m ai Campionati Europei di Roma.

L’opposizione della famiglia

Appare evidente che la vita della ragazza sia votata allo sport quando Gabriella centra il podio, terza posizione, nei 1.500 m del Campionato Europeo Juniores. Nonostante questo, la giovane deve scontrarsi con l’opposizione dei genitori prima di indossare la maglia nazionale che la porterà all’Olimpiade. La sua è una famiglia di contadini vicentini, gente onesta per cui la vita ha il prezzo della fatica e del lavoro, ma condizionata dalla mentalità provinciale dell’epoca, che percepiva una donna dedita ad assidui viaggi come immagine di dissolutezza. Che la ragione dei continui spostamenti di Gabriella fosse da attribuire allo sport era soltanto un aggravante al malcostume.

I genitori non vogliono proprio saperne di lasciarla andare: la sola idea della loro bambina tutta sola esposta ai pericoli di città sconosciute li sgomenta, preferirebbero di gran lunga che a girare il mondo fosse Sante, l’uomo di casa, fratello di Gabriella. Alla fine, però, la straordinaria bravura della ragazza, tanto decantata dall’insegnante di ginnastica, riesce a spuntarla ancora una volta: grazie anche al provvidenziale intervento del parroco del paese e alla sua influenza sulla famiglia, viene concesso a Gabriella di partire e abbandonare il nido.

E lei, finalmente libera dai vincoli che la relegavano alle competizioni in territorio nazionale, non tarda molto a spiccare il volo: dapprima partecipa ai Giochi Olimpici di Montréal e agli Europei del 1978 guadagnando la sesta posizione nei 1.500 m, poi approda ai Giochi Mediterranei in Jugoslavia all’eccezionale risultato di 1′ 57″ 66 sugli 800 m, un record che le varrà la conquista del primato italiano, ancora oggi imbattuto.

la Dorio a destra

la Dorio a destra

 

Nel 1980 prende parte ai Giochi Olimpici di Mosca, piazzandosi all’ottavo e al quarto posto rispettivamente negli 800 m e nei 1.500 m. La competizione si rivela ardua, soprattutto per lo scontro con rivali del calibro delle russe Tat’jana Vasil’evna Kazankina, Yekaterina Podkopayeva e Nadesha Raldugina, veri e propri razzi umani, atlete allenate con ogni mezzo, programmate per una gara feroce.

Ora le preoccupazioni di Gabriella non sono i timori per le sottili invidie, gli scherni che la assillavano nelle  competizioni domenicali, quand’era ancora al paese; allora gli uomini non accettavano di essere superati da una ragazzina e la aggredivano con fischi e insulti, non solo durante la corsa ma anche dalle tribune, spesso costringendo lei e le amiche ad una partenza ritardata per evitare di essere sbeffeggiate nel mezzo della gara.

Quando si ritrova ai fatidici Giochi Olimpici la giovane atleta deve ammettere a se stessa che la competizione diventa una belva ancora più spietata e sleale – spesso nutrita da sostanze anabolizzanti, al fine di conquistare la vittoria – proprio dove dovrebbe essere praticata per pura passione, nel tempio sportivo per eccellenza. Ma a Los Angeles le carte si rimescolano: il boicottaggio dell’Unione Sovietica, in risposta a quello degli Usa a Mosca, consente l’ascesa di altri Stati rimasti fino ad allora nell’ombra, come la Cina e i paesi africani, ma soprattutto sgombra il campo dalla potenza delle podiste russe.

Gabriella Dorio ha tra le mani la sua occasione d’oro; finalmente potrà permettere al suo gioco pulito di emergere senza l’ostacolo delle energumene sovietiche. Certo, la Romania rappresenta un’altra temibile rivale da fronteggiare, con atlete imbattibili come Doina Ofelia Melinte e Maricica Puică. In particolare la Melinte, già vincitrice degli 800 m, darà parecchio filo da torcere a Gabriella e proprio nella loro sfida sarà concentrata l’attenzione negli ultimi minuti di gara, attimi in grado di tenere pubblico e cronisti col fiato sospeso.

Una sfida al cardiopalmo

E’ l’11 agosto del 1984 e a Los Angeles il sole cade a picco sulle mezzofondiste allineate in attesa della partenza per i 1.500 m: la quarta posizione conquistata negli 800 m è per Gabriella un buon risultato, ma non sufficiente a placare l’eco delle parole pronunciate da ragazzina. E non sono soltanto i retaggi dei suoi sogni infantili a motivarla, ma anche una promessa – fatta proprio il giorno precedente alla gara – a Sara Simeoni, campionessa italiana del salto in lungo, che dopo la vittoria della medaglia d’argento aveva incoraggiato la giovane connazionale donandole uno dei fiori ricevuti alla premiazione.

Eppure, negli istanti che precedono l’inizio della gara, l’oro aleggia solo come un presagio nelle menti delle atlete; al segnale di partenza la priorità diventa correre, e forse pure l’immagine del traguardo si annulla sovrastata dal fragore di movimenti allineati, delle scarpe che solcano con regolarità il terreno sfiorandolo appena prima di affrontare il passo successivo.

La prima parte della gara appare molto tattica, le mezzofondiste corrono con un ritmo costante mantenendo una distanza ravvicinata. Poi, ad un giro e mezzo dalla fine, è Gabriella ad accelerare, staccando le altre: la sua maglia azzurra, contrassegnata dal numero 226, spicca come uno scorcio di cielo sulla terra rossa del campo. L’unico dettaglio che definisce la sua figura nei rapidi istanti della corsa sono i capelli corti e mossi color castano chiaro: non a caso Gabriella è per tutti “Riccioli d’oro”.

la vittoria di Los Angeles

la vittoria di Los Angeles (© Getty Images)

 

L’ultimo brivido è a duecentocinquanta metri dal traguardo, quando Donia Melinte la sorpassa, ma Gabriella non cede e continua a tallonarla, torna all’attacco all’uscita della curva, si allarga all’inizio del rettilineo finale e supera la rumena ad appena ottanta metri dalla fine, arrivando al traguardo con un vantaggio di cinquantuno centesimi di secondo sulla rivale.

Il sogno di Gabriella si è realizzato e lei, sorridendo di incredula soddisfazione, leva le mani verso il cielo e si volta in direzione degli spalti che la applaudono. Un ragazzo del pubblico le porge perfino una bandierina, lunga dieci centimetri, uno di quegli stecchi decorativi che si infilano nei gelati, e lei, stringendo quel piccolo riconoscimento, compie il giro d’onore lungo la pista della sua Olimpiade.

È proprio la minuscola bandiera il ricordo più caro che Gabriella ancora oggi conserva di quell’emozione indimenticabile. Un oggetto all’apparenza insignificante, ma che per lei avrà sempre l’energia della vittoria, anche ora che di vittorie ne ha avute molte; non solo nello sport ma anche nella vita privata, come madre e moglie e come tutor dei ragazzi che allena, perché, come lei, possano trovare nell’atletica una forma di libertà personale.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

 

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