Sandro Luporini

Sandro Luporini

Sandro Luporini

 

Io, Gaber e lo sport

Le luci dei riflettori, molto spesso, hanno la cattiva abitudine di nascondere tutto ciò che resta in ombra. Un bravo osservatore però, sa benissimo che non ci si deve fermare al proscenio, ma scavare ben oltre il sipario.

Quando nel 1970 Giorgio Gaber decise di abbandonare la gloria televisiva per approdare a teatro, non tutti conoscevano il suo più fedele compagno di viaggio, che lo ha accompagnato dal debutto alla fine. Sandro Luporini, scrittore e pittore viareggino, è stato il coautore della quasi totalità dei testi che il Signor G. ha portato in giro per tutta Italia.

Vi starete chiedendo cosa c’entrino Gaber e Luporini con il mondo dello sport. Domanda più che lecita. In effetti Gaber ben poco, ma Luporini, prima di intraprendere le vie del successo artistico, aveva un’altra passione che ha coltivato con ottimi risultati: la pallacanestro.

«Tof tof tof . Il paese è in una fase delicata. Tof tof tof, si è in un periodo di transizione, tof. Dlin Dlon. Oggi al parlamento, una mozione, l’avversario si alza, e mette lì la sua, una differenza, leggerissima, e… tatatpata. Dopodiché, tutti al tennis. Tof tof  sì, giocano tutti al tennis, e qui mi incazzo».

Luporini e Gaber

Luporini e Gaber

 

È la stagione 1976/77 e Gaber calca i palcoscenici di tutta la penisola portando in tour la sua ultima fatica, lo spettacolo Libertà Obbligatoria. Con la solita sagace ironia e capacità  introspettiva, l’autore milanese mette a nudo la società italiana e, per la prima volta, si aiuta nel farlo con lo sport. Il pezzo sopracitato è uno stralcio del monologo Il tennis, scritto da Gaber e dall’immancabile Luporini.

«Con Giorgio non parlavo molto di sport, però, per rendere piacevoli le nostre pause di lavoro, abbiamo inventato un giochino. Inventato si fa per dire. Si trattava di una specie di calcio-tennis. Praticamente una rete, un pallone da calcio, quattro giocatori (due contro due) che tentano di fare il punto utilizzando solo i piedi e la testa. Io e Giorgio vincevamo sempre, anche perché le regole le avevamo fatte noi».

I due si divertono, fanno divertire ed al contempo lasciano trasparire una sconvolgente naturalezza che sarà il segreto del loro successo. Successo però, che Sandro aveva già potuto toccare, sui campi di basket.

Figlio di una generazione che ha vissuto la guerra con l’innocenza da bambino, Sandro Luporini (nato a Viareggio il 12 luglio 1930) ha cominciato a giocare a pallacanestro in strada, grazie ai soldati americani che avevano provvidenzialmente costruito un campetto nella sua città natale. «Nel 1945 alcuni soldati americani misero su a Viareggio un campetto di pallacanestro. Io e alcuni miei amici cominciammo a giocare e ci sembrò molto divertente».

Si forma così un nucleo di ragazzi che, uniti dalla palla a spicchi, condivide le proprie giornate scanzonate. In quel gruppo però, di Luporini non c’è solo Sandro, ma anche Francesco, il fratello. Una famiglia legata indissolubilmente a questo sport, che aveva visto già un altro componente andare a canestro: «Il basket era una qualità di famiglia, tanto più che anche mia sorella Carla aveva giocato prima di noi, quando la pallacanestro era completamente sconosciuta».

il Vela Viareggio ai tempi della serie A

il Vela Viareggio ai tempi della serie A

 

Infatti la pallacanestro in Italia è ancora lontana dai vertici e proprio per questo motivo assume nella vita di Sandro un valore puramente ricreativo. La Vela Viareggio, la squadra in cui milita, comincia  però a macinare vittorie e ciò che era nato come un semplice svago, inizia a ritagliarsi uno spazio sempre più importante. «All’inizio, significava divertimento puro. Poi, conseguentemente ai nostri progressi, ci siamo presi un po’ sul serio e, con le nostre canottiere tinte in casa, abbiamo scalato la serie C, poi la serie B fino ad arrivare miracolosamente alla serie A».

Un tripudio insperato avvolge la squadra viareggina ed i suoi componenti. Dal campetto con i soldati americani alla massima serie italiana: lo stesso Sandro ha difficoltà ad orientarsi. «Non so nemmeno bene come, ma sono diventato quasi professionista, militando per ben quattro anni di seguito in serie A (un anno con il Viareggio, due con la Stella Azzurra di Roma e l’ultimo con il Cantù)».

Da Viareggio a Roma, fino alla Lombardia. Un pellegrinare lontano dai ritmi di una tournée teatrale, ma che ha portato il giovane Sandro ad esperienze uniche ed assolutamente formative. «Credo che il basket abbia influito molto nella mia crescita e non solo per il benessere fisico che se ne ricava, ma anche per la formazione del carattere. La competizione, quando è sana, insegna il rispetto e la lealtà. Mi viene da pensare che nell’antichità abbiano inventato i giochi per relegare a mero simbolo la supremazia dell’uomo sull’uomo».

un dipinto di Luporini

un dipinto di Luporini

 

Guai però a mischiare arte e sport: «Non trovo una gran connessione tra arte e sport se non per il fatto che in entrambi gli specifici è necessaria la tendenza a lavorare molto per dare sempre il meglio di sé».

Infatti, senza un lavoro costante non si possono raggiungere così alti risultati. Solo grazie ad un’applicazione serrata (oltre che a doti non concesse proprio a tutti) puoi riempire i teatri italiani per trent’anni o giocare in Serie A di pallacanestro. Per non dimenticare la pittura, forse la vera grande vocazione di Sandro Luporini.

Insomma, un professionista a tutto tondo, che non si è fatto mancare nulla ed ha anzi contribuito a lasciare tanto a noi. Un uomo sensibile, come ricorda lui stesso, nei momenti in cui è d’obbligo esserlo: «A diciassette anni sono stato chiamato in Nazionale Juniores per un incontro Italia-Francia. Qualcuno dice che il nostro inno nazionale sia un po’ bruttino. Non lo so, ma quando lo senti a quell’età, inchiodato sull’attenti con indosso la maglia azzurra, ti prende qualcosa che assomiglia alla commozione. La partita finì male perché vinse la Francia, ma io continuo a dire “Viva Goffredo Mameli!”».

D’altronde, come lui stesso ci ricorda, sono i calciatori, quelli che non lo sanno:

«Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell’inno nazionale

di cui un po’ mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore».

(Io non mi sento italiano, di G. Gaber e S. Luporini)

Mattia Pintus
© Riproduzione Riservata

 

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Comments To This Entry
  1. Interessantissima e originale intervista a un Luporini che non conoscevo. Bravi

    Roby65 on June 19, 2013 Reply
    • Grazie, anche a nome del nostro collaboratore Mattia Pintus. Ricercare gli aspetti inediti ed insoliti legati allo sport è uno dei lati più affascinanti del nostro “lavoro”! (la Redazione)

      admin on June 28, 2013