John Wooden

John Wooden

John Wooden (© AP)

 

Il significato del successo

Vi siete mai chiesti perché i Los Angeles Lakers, la squadra di basket più glamour e più titolata del pianeta, si chiamino proprio così? Insomma, che senso ha il soprannome “gli abitanti del lago” se a Los Angeles non si è mai visto uno specchio d’acqua dolce neppure in cartolina? In realtà a Hollywood e dintorni, la pallacanestro era pressoché sconosciuta fino a cinquant’anni fa. I Lakers erano la franchigia di Minneapolis, solo nel ’60 si trasferiscono a Los Angeles. Per capire come è nata la leggenda del dreamteam gialloviola, bisogna conoscere quello che oltreoceano viene definito pressoché unanimemente il più grande uomo di basket di sempre. Perché se Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar o più recentemente Shaquille O’Neal e Kobe Bryant sono considerati alla stregua di intoccabili, John Robert Wooden sfiora la sfera della sacralità. E se la definizione vi sembra eccessiva, sappiate che tutti quelli che lo hanno conosciuto, la troverebbero persino riduttiva perché John Wooden era anche un maestro, una guida, un patriarca, un predicatore, un filosofo. Persino un linguista.

Vittoria o successo?

Dovendo spiegare ai suoi giocatori il significato della parola successo, cerca conforto nel vocabolario. Ma la definizione «il raggiungimento di un risultato di prestigio o degno di approvazione sociale» non lo convince. Messa in questi termini, sembra che il successo sia qualcosa sancito dagli altri, convalidato dall’esterno in modo oggettivo. E allora conia una definizione che vada bene per lui, per il suo modo di intendere la pallacanestro e soprattutto la vita: «successo come raggiungimento della serenità interiore dovuta alla consapevolezza di avere ottenuto il massimo miglioramento possibile in virtù delle proprie capacità e secondo i propri limiti».

Wooden coach (© Getty Images)

Wooden coach (© Getty Images)

 

Lavorare su sé stessi, credere in sé stessi, migliorarsi per sé stessi. Lo ripeteva ai suoi ragazzi: «Preoccupatevi più del vostro carattere che della vostra reputazione perché la reputazione è ciò che gli altri pensano che voi siate mentre il carattere rappresenta ciò che voi siete». Lo hanno ribattezzato il Mago del Woodex, ma  lui era refrattario a ogni ghirigoro mediatico, era convinto che i valori non venissero accentuati dall’enfasi, trovava controproducente alzare il volume della voce. Non ha mai urlato, nella sua esistenza (ed è vissuto novantanove anni, mica una sveltina) non ha mai detto una parolaccia. Urlare? Non ne ha mai sentito il bisogno. Amava l’abitudine. Ha allenato una sola squadra, ha amato una sola donna, incarnando ciò che gli Stati Uniti volevano essere.

Rispettabile, vincente, carismatico. Puro e non puritano. Le statistiche, l’albo d’oro e il palmarès ci dicono come mai è entrato nella storia. Ma non ci rivelano perché ne è uscito per entrare nel mito, perché l’America intera si è commossa quando è scomparso, perché i suoi libri sono diventati materiale didattico per i docenti nelle scuole, per gli uomini d’affari negli uffici, per gli aspiranti psicologi. Chi era realmente John Robert Wooden e cosa ha rappresentato e cosa continua a rappresentare nella cultura a stelle e strisce? Un ottimo giocatore che decide presto di diventare allenatore perché pensa che insegnare sia una missione. Faceva il professore d’inglese (e lo faceva bene stando a quanto raccontavano i suoi allievi) ma come coach può unire il piacere di trasmettere qualcosa agli altri con l’amore per la pallacanestro.

Wooden festeggia una vittoria (® AP)

Wooden festeggia una vittoria (® AP)

 

Riceve una chiamata per guidare la squadra di UCLA (University of California, Los Angeles) nel 1948. Ci sarebbe un problema: fino ad allora da quelle parti non si è  mai vinto nulla. Non si possono seguire le orme della tradizione perché una tradizione non c’è affatto, non si può neppure ricostruire perché nessuno si è mai preoccupato di costruire. Wooden non si scompone e inizia a modellare il suo capolavoro. È un allenatore globale: si occupa di ogni aspetto, dal più banale avvertimento per evitare contrattempi in partita alla maturazione caratteriale dei propri giocatori. Così con disinvoltura nel corso degli allenamenti si premura di spiegare ai suoi giocatori come allacciarsi le scarpe per scongiurare le vesciche e poco dopo regala loro parole che rimangono scolpite come pietre. E se non riuscite ad immaginare un tecnico nello sport moderno che erudisce i propri atleti su come annodare correttamente le stringhe, vi sembrerà ancora più imponderabile che un tecnico regali aforismi come: «Il talento ti viene dato da Dio: sii umile. La fama ti viene data dagli altri uomini: sii grato. La presunzione ti viene data da te stesso: stai attento».

Vi immaginate José Mourinho, Antonio Conte o Lippi avvicinarsi a un proprio giocatore chiedendogli se ha mai letto una raccolta di poesie? Ecco, Wooden rassicurava sul futuro i propri allievi –  poco importa che nel corso dei decenni gli sono capitati anche i più tamarri della California – con poche parole: «Non avete nulla da preoccuparvi. Tra cinque anni sarete gli stessi di adesso tranne che per le persone che incontrerete e i libri che leggerete». Citava Miguel de Cervantes per ricordare come il viaggio fosse meglio della meta; arrivare a destinazione spesso è una mezza delusione. Usava la stessa metafora per spiegare come il viaggio corrisponda al lavoro negli allenamenti; migliorarsi giorno dopo e constatare i propri progressi regala le soddisfazioni più profonde.

Wooden festeggia una vittoria (® AP)

Wooden festeggia una vittoria (® AP)

 

La meta corrisponde al risultato della partita: è qualcosa che arriva dopo sia cronologicamente sia sul piano dell’intensità delle emozioni. Solo dopo aver capito la persona (con lui non si può parlare di personaggio), si possono passare in rassegna i risultati conseguiti con UCLA. In questo caso basta e avanza far scivolare le cifre: dieci campionati NCAA conquistati in dodici anni, il record di ottantotto partite vinte consecutivamente, tre stagioni chiuse con la casella delle sconfitte che recita uno sconfortante zero (sconfortante per gli avversari, ovviamente).

Un uomo di altri tempi

Ha allenato campioni? Sì e bene: Bill Walton o il già citato Kareem Abdul-Jabbar per fare solo due nomi. Ma ha anche allenato futuri avvocati, medici, ingegneri, avvocati. Teneva il conto di quanti suoi ex pupilli riuscivano ad affermarsi nella vita pur senza correre dietro a una palla a spicchi. Non gli piaceva parlare dei singoli, lo faceva solo per offrire delle “parabole” ai suoi futuri discepoli. Quando gli chiedevano quali giocatori  avessero regalato maggiori soddisfazioni, rispondeva Conrad Burke e Doug Mcintosh. La prima volta che li ha visti giocare ha pensato che mai avrebbero potuto far parte dei titolari perché gli dèi del basket li avevano guardati per poi girare la testa e distribuire il talento ad altri. Ma rappresentavano il suo concetto di successo: non avevano grande elevazione ma conquistavano rimbalzi prendendo una buona posizione, non avevano una mira infallibile ma avevano buone percentuali perché non forzavano, non erano estrosi ma risultavano decisivi.

 Wooden con la moglie Nellie e i figli (1948) (© AP)

Wooden con la moglie Nellie e i figli nel 1948 (© AP)

 

Pur rimanendo un simbolo, si è ritirato dal basket nel 1975 per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia e all’amata moglie Nellie. L’ha conosciuta quando aveva sedici anni, l’ha sposata dieci anni dopo, l’ha onorata come moglie per cinquanta anni e dopo la sua scomparsa ha continuato a scriverle una lettera d’amore ogni mese in attesa del ricongiungimento.

Era il 4 Giugno 2010: John Wooden se ne andava in punta di piedi alle soglie dei cento anni. L’immagine di un’America così bella da non esserci più.

Roberto D’Ingiullo
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