Alberto Ascari

Alberto Ascari

Alberto Ascari

 

Il pilota del destino

Ci sono destini simili a cavalli imbizzarriti, che galoppano lungo la vita per impennarsi proprio nell’attimo in cui nulla sembra poterne fermare la corsa. Con Alberto Ascari il gioco delle fatalità salda il conto nel breve spazio di quattro giorni, sfumando l’illusione di una salvezza in una condanna senza appello. L’unico campione del Mondo italiano di Formula Uno non fa in tempo a sopravvivere al più spettacolare incidente automobilistico della storia che muore in un banale giro di prova, sbalzato fuori dall’abitacolo di una vettura impazzita.

È il finale che non ti aspetti, neanche se ce l’hai scritto sulla pelle come una cicatrice che brucia fin dall’età di sette anni: non li aveva ancora compiuti, Alberto, il giorno in cui vide il padre Antonio, leggendario pilota dell’Alfa Romeo, schiantarsi sul circuito francese di Montlhéry. Era il 26 luglio 1925, e quel bambino avvezzo alle piste automobilistiche, immortalato qualche mese prima con una mano sul cofano della vettura paterna, non sapeva di aver appena raccolto il testimone di famiglia.

L’amore per le corse

Nato a Milano il 13 luglio 1918, Alberto (per tutti Ciccio) cresce respirando aria di benzina e motori: a quattro anni è già al volante di un’automobile che conduce da solo per un centinaio di metri, affrontando con disinvoltura una curva larga; a 11, monta in sella a una motocicletta dell’officina di Goliardo Bassetti, in piazza d’Armi, bigiando sistematicamente la scuola per guadagnarsi a pokerino le 10 lire utili ad entrare nel circuito di Monza. Quando la madre lo scopre, lo spedisce in collegio ad Arezzo prima, Macerata poi, ma è tutto inutile: a 18 anni Alberto si affranca dalle sue tenaglie per intraprendere la carriera che sente scorrergli nelle vene.

A bordo della sua Sertum 500 due cilindri, acquistata con i soldi racimolati dalla cessione di un orologio d’oro, nel 1936 debutta alla 24 Ore di Regolarità vincendo alla sua seconda gara sul circuito del Lario. Per qualche anno si cimenta con successo nelle corse motociclistiche, ma il suo sogno è l’automobilismo. Nel febbraio 1940 Alberto compra un’Auto Avio Costruzioni 815, primo gioiellino targato Enzo Ferrari, al volante della quale si lancia con il compagno Giovanni Minozzi alla conquista della Mille Miglia sul triangolo Brescia-Cremona-Mantova. I due guidano la gara, ma duecento chilometri dopo la partenza sono costretti a ritirarsi a causa della rottura di una valvola. Nell’ambiente, però, Alberto comincia a farsi notare: all’indomani di un pur deludente nono posto in una corsa a Tripoli condotta su una Maserati sei cilindri, Corrado Filippini scrive di lui su Auto Italiana: «Il debuttante Ascari ha rivelato notevoli doti anche al volante di una vettura da corsa. Vogliamo dire stile facile, controllo, senso tattico, riflessione».

Ascari trionfatore a Monza nel 1952

Ascari trionfatore a Monza nel 1952

 

Ma con la guerra i motori si spengono e Alberto si rifugia in Val d’Aosta, nei boschi di Courmayeur. Per lui sembra aprirsi un nuovo capitolo: il matrimonio con Mietta Tavola e la nascita dei figli Tonino e Patrizia lo allontanano dalla vita spericolata di un tempo, almeno fino a quando l’amico fraterno e maestro Gigi Villoresi non lo tenta con l’offerta di una vettura Cisitalia per il Gran Premio d’Egitto. È il 1947 e Alberto torna in pista centrando un secondo posto che incoraggia la sua voglia di ricominciare. La Maserati lo ingaggia affidandogli una delle sue nuove Sport due litri per il Gran Premio di Modena, in cui Alberto sigla la sua prima ma amara vittoria. La gara è infatti funestata dalla strage di cinque spettatori travolti dall’uscita di strada della Delage Tremila di Giovanni Bracco.

L’ingaggio nell’Alfa Romeo

Sono anni in cui la morte corre sulle piste a braccetto con i piloti e Alberto, che ha sulle spalle la responsabilità di una famiglia, costruisce sulla consapevolezza dei rischi del suo mestiere anche il rapporto con i figli: «Non voglio che mi amino troppo» confessa «perché un giorno o l’altro potrei andarmene. Soffriranno di meno se non me li sarò lasciati venire troppo vicini». Intanto quando l’Alfa Romeo gli propone di sostituire Achille Varzi, morto nelle prove del Gran Premio di Svizzera, Ascari accetta seduta stante. Un tributo al padre che si esaurisce in un terzo posto a Reims; poi il ritorno in Maserati e il primo grande successo, al Gran Premio d’Argentina del 1949, strappato al padrone di casa Juan Manuel Fangio sulla linea del traguardo.

I tempi sono maturi per il salto di classe: approfittando delle difficoltà della Maserati, coinvolta in una durissima vertenza sindacale, Enzo Ferrari piomba tanto su Ascari quanto su Villoresi, convincendo entrambi a firmare per lui. Alberto apre la sua esperienza ferrarista con una vittoria al GP di Bari, e con la Rossa colleziona successi anche nei GP di Svizzera, Francia, Inghilterra ed Europa: si fregia così del titolo di campione d’Italia nella categoria corse, che riconquista l’anno dopo aggiudicandosi ben dieci delle ventisette gare disputate.

Il 1951 è l’anno della conferma: Ascari non vince il campionato del mondo, ma è la spina nel fianco di Fangio, con il quale dà vita a un duello senza esclusione di colpi. Si combatte ruota contro ruota al Nürburgring, a Monza e infine a Barcellona, dove Alberto cede il passo all’iridato argentino. L’atteso alloro arriverà per lui nelle due stagioni successive: Ascari fa sue undici gare nel 1952, sette più la Mille Chilometri del Nurburbring nel 1953. È una prova di forza suggellata da una straordinaria rimonta sul circuito di Francorchamps che sfata il luogo comune secondo cui Alberto è un pilota da comando ma non da battaglia: terzo al nono giro dietro Fangio e José Froilán González, il campione del mondo in carica pressa i due al punto da costringerli al ritiro e arrivando al traguardo con tre minuti di vantaggio sul secondo classificato.

da sinistra Giuseppe Farina, Alberto Ascari, Mike Hawthorn e Luigi Villoresi

da sinistra Giuseppe Farina, Alberto Ascari, Mike Hawthorn e Luigi Villoresi

 

L’idillio con la Ferrari è però al tramonto e nonostante l’affetto che lo lega alla scuderia di Maranello, nel 1954 Ascari passa alla Lancia progettata da Vittorio Jano. Trionfo nella Mille Miglia a parte, la prima stagione con l’ambiziosa casa automobilistica di Torino si rivela tuttavia un flop. Bisognerà attendere il 1955 per raccogliere i frutti del nuovo corso, almeno nelle prime gare: Ascari domina il GP del Valentino a Torino e quello di Napoli; poi, il 22 maggio, arriva Montecarlo.

L’ora della fine

Alberto tenta di annullare il largo vantaggio di Stirling Moss, al comando della corsa. All’ottantesimo giro la Mercedes Benz W196 del britannico cede, consentendo ad Ascari di passare in testa. Sembra fatta, ma proprio alla chicane lungo il porto, mentre la folla astante saluta il pilota a un passo dalla vittoria, la Lancia D50 imbocca una curva impossibile scegliendo l’unica via di fuga ragionevole: il mare.

Sono attimi di panico: gli spettatori trattengono il fiato fino a quando un casco azzurro non risale a galla e l’italiano viene raggiunto e tratto in salvo dai sommozzatori. Un miracolo? Così scrivono i giornali, così deve pensarla lo stesso Alberto, che quattro giorni dopo viola le ferree leggi della sua superstizione, quasi rassegnandosi a quelle del fato: lui che evitava scientificamente i gatti neri, che gareggiava con gli stessi indumenti delle prove, che non aveva mai corso di giorno 26, il 26 maggio 1955 a Monza, alla vigilia della Mille Chilometri, si fa prestare casco e macchina (una Ferrari sport 3 litri) dall’amico Eugenio Castellotti e in giacca e cravatta si lancia in pista. Alla curva del Vialone, oggi variante Ascari, la vettura inspiegabilmente sbanda e per Alberto è l’ora della fine. La sua parabola termina all’età di 37 anni, come quella del padre: in vita come in morte, Ciccio ne aveva emulato le gesta.

Graziana Urso
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