Cathy Freeman

 

Cathy Freeman (© Kapat)

Cathy Freeman (© Kapat)

 

Un oro contro il pregiudizio

Ai Giochi di Sydney del 2000, nella finale dei 400 m, una sprinter australiana ha portato in corsia (la sesta) il peso politico delle esclusioni razziali ed etniche e quello del nazionalismo. Può una vittoria sportiva apportare un cambiamento al di fuori della pista d’atletica? Lo sport agonistico è un dovere sociale? Riesce a ergersi a paradigma di un intero popolo? Il fardello della storia grava sulle scarpe degli atleti, come aveva gravato su quelle di Jesse Owens nell’Olimpiade di Hitler. Talvolta conta di più il colore della pelle, talvolta pesano di più le discriminazioni di genere, e non c’è dittatura o democrazia che faccia la differenza, succede anche in situazioni di apertura mentale e libertà.

Tutti gli occhi sono puntati su di lei, quel 25 settembre 2000 a Sydney. Le telecamere presentano le atlete in pista: in prima corsia la russa Olga Kotlyarova, mani sui fianchi e lunghi respiri; poi l’inglese Donna Fraser che saltella, occhi semichiusi dietro gli occhiali; in corsia tre, l’altra inglese, Katharine Merry, che sorride a stento alzando il braccio. Segue la carrellata con la giamaicana Lorraine Graham, immobile, una statua d’ebano di centosettantacinque centimetri; poi la messicana Ana Guevara che bisbiglia incomprensibili incantesimi nella corsia cinque. Alla sesta corsia lo stadio esplode mentre la telecamera si ferma sul battito di mani serio della favorita di casa, Cathy Freeman, involta in una tuta spaziale che diverrà celeberrima (e che da allora i designer della Nike stanno cercando di perfezionare). Il boato non si placa e continua ad accompagnare la telecamera che chiude la rassegna con la sudafricana Heide Seyerling e la nigeriana Failat Ogunkoya, che guarda a terra alla ricerca di un qualcosa d’invisibile (forse la forza per vincere).

La bandiera aborigena

L’aria è elettrica, le atlete si mettono in posizione. Manca la campionessa in carica, la francese Marie-José Pérec: non ha retto allo stress e non si è presentata ai blocchi della prima batteria. Lorraine Graham ha vinto la prima semifinale; Cathy Freeman ha vinto la seconda su Ana Guevara. Il boato dello stadio non cessa. Il via: un crescendo di urla, la giamaicana in testa, l’australiana che rimonta. Stringe i denti, corre, supera: 49’ 11’’ dopo il via Cathy Freeman taglia il traguardo. Tre passi, abbassa la cerniera, si toglie il cappuccio, si siede e realizza con la testa tra le mani l’impresa appena compiuta. Respira profondamente. Si china su di lei Donna Fraser, arrivata quarta. Un piccolo gesto sororale di complimento per congratularsi di un successo che ha il sapore della storia. Non c’è record del mondo a rendere sensazionale l’evento, ma c’è una stretta di mano storica. La Freeman si rialza dopo quello che sembrava un lunghissimo tempo, si fascia il corpo con due bandiere: quella australiana e quella degli aborigeni d’Australia, come già aveva fatto all’Olimpiade di Atlanta e ai precedenti Giochi de Commonwealth. Fa così il giro d’onore avvolta dalla croce e dalle stelle su sfondo azzuro e dal sole giallo al centro, tra i colori della terra del territorio australe.

Cathy Freeman ai blocchi di partenza (© Ian-ThePaperboy.com)

Cathy Freeman ai blocchi di partenza (© Ian-ThePaperboy.com)

 

Catherine Astrid Salome Freeman nasce il 16 febbraio 1973 a Mackay, nel Queensland. Il nome Catherine deriva dal greco e significa “purezza”; Astrid deriva dal tedesco e significa “stella”; “Salome” in ebraico significa “pace”. Il cognome Freeman tradotto in italiano suona come “uomo libero”. Una singolare etimologia lega la ragazza, aborigena, figlia diretta della storia di discriminazioni e massacri che costella le relazioni tra i bianchi e i neri nel Continente Australe, al futuro di successo sportivo e alla visibilità mediatica che la aspetta. Con la serena innocenza dei predestinati, Catherine Astrid Salome Freeman porta una promessa di riconciliazione nel nome.

Ma il cammino è lungo, non bastano quattrocento metri.

La Freeman entra nella leggenda all’Olimpiade di Atlanta, quando diventa la prima aborigena a vincere una medaglia, argento al secondo posto dietro alla francese Marie-José Pérec, sua acerrima avversaria degli anni Novanta. La sfida sarà sempre tra di loro: la Pérec vince i Mondiali di Göteborg nel 1995, la Freeman è al quarto posto, la Pérec bissa l’oro nei 200 m e nei 400 m ad Atlanta; i Mondiali del 1997 e del 1999 sono della Freeman, ma la Pérec non gareggia. Il confronto torna a Sydney 2000 ma non ci sarà.

La vittoria più bella

Cathy Freeman ha già uno storico primato: a sedici anni è stata la prima aborigena a vincere i Giochi del Commonwealth. A ventisette anni la consacrazione a Sydney, migliorando l’argento di Atlanta con l’oro nei 400 m. L’Australia la soprannomina “la nostra Cathy”, facendola entrare in una storia che era sempre stata negata ai neri down under. Fino al 1966, ai bambini aborigeni era vietato l’accesso alle piscine pubbliche. Catherine alla scuola elementare aveva assistito alle premiazioni di bambine bianche in una gara in cui lei era stata migliore. E sua nonna era una bambina della “generazione rubata”, strappata alla famiglia d’origine per essere cresciuta tra i bianchi. Di qui, la via della “riconciliazione” aborigena intrapresa dal Governo australiano, una strada purtroppo piena di sangue e pregiudizi sociali, culturali e, non in ultimo, tribali. Bisognerà aspettare il 1967 affinché la popolazione aborigena sia ufficialmente censita come australiana. Bisognerà aspettare il 2008 affinché il Governo porga le scuse ufficiali alla popolazione aborigena.

Ma allo scoccare del Millennio, il volto rappresentativo dell’Australia è un volto nero. È il volto di Cathy Freeman. È lei, ambasciatrice di un popolo oppresso, ad avere l’onore di accendere il braciere olimpico, un gesto indimenticabile d’impatto spettacolare, vista la cerimonia acquatica che lascerà l’atleta completamente bagnata. Ed è lei a correre più veloce di tutte: oro nei 400 m. È l’unico atleta ad aver acceso la torcia e ad aver vinto una medaglia nella stessa edizione dei Giochi Olimpici. Il commentatore della TV australiana, mentre lei incredula si toglie il cappuccio a bordo pista, commenta: «Tutti amiamo Cathy». In mezzo alla folla che si gode lo spettacolo dal maxischermo di Circular Quay, una voce grida: «Amateci tutti».

In quei quattrocento metri Cathy dà il meglio di sé, chiudendo con una storica medaglia i conti con il Paese che tanto le aveva dato, ma che altrettanto le aveva tolto. La sua vittoria sembrava poter aprire un nuovo futuro, fatto non di assimilazione, ma di rispetto e di tolleranza.

Cathy Freeman taglia il traguardo (© Getty Images)

Cathy Freeman taglia il traguardo (© Getty Images)

 

Ci vorranno ancora otto anni perché l’Australia compia un passo ufficiale verso la riconciliazione: il 13 febbraio 2008 il premier australiano, il laburista Kevin Rudd, ha chiesto ufficialmente perdono per le sofferenze inflitte alle «generazioni rubate» mediante la politica praticata dal governo sino al 1969.

Ritiratasi dalla scena sportiva, nel 2012 il volto che annuncia le Olimpiadi di Londra in Australia è ancora quello della Cathy nazionale. Che per l’occasione, ha passato anche qualche giorno in Europa, a Londra dove ha casa, per seguire le gare di atletica e commentarle in TV e via Twitter.

Da piccola, Cathy lo aveva ben chiaro: voleva essere una campionessa olimpionica. Raggiunto il traguardo, ha abbandonato l’agonismo ma non la pista d’atletica e ha continuato ad amare la sua terra, occupandosi dell’educazione e della crescita di giovani donne aborigene. Opera attraverso la Cathy Freeman Foundation, un’organizzazione che dal 2007 si occupa del territorio di Palm Island, all’altezza della Grande Barriera Corallina, territorio di cui la madre della Freeman era originaria. Qui il 60% della popolazione è sotto i venti anni e l’aspettativa di vita è di cinquanta, il 38% in meno rispetto alla media dello stato. L’alfabetizzazione è sotto la media nazionale. La disoccupazione ha toccato la vetta percentuale del 90%.

Sono numeri da battere, primati da vincere fuori dal circuito sportivo. Oltre i pregiudizi e le prescrizioni. Magari con la corsa: Cathy doveva correre per beneficienza la maratona di New York, annullata a causa dell’uragano Sandy. Ora ha chiesto al popolo virtuale che la segue su quale altra maratona dirottare le donazioni. Chissà se la rivedremo con quella tuta da astronauta che protegge, dal basso di una corsa a piedi, tutti gli indigeni della terra.

Melania Sebastiani
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