Nándor Fa

Nándor Fa a bordo di Budapest (© Hetényi)

Nándor Fa a bordo di Budapest (© Hetényi)

 

Il genio della vela

Durante l’autunno del 1979 un giovane e promettente sportivo ungherese che dopo anni di kayak e di canoa canadese aveva da poco cambiato tipo di imbarcazione passando al Finn, andò a trovare un suo amico, canoista anche lui, per parlargli di un libro. Non si trattava semplicemente di una lettura, ma di una folgorazione: Gipsy Moth – Il giro del mondo a vela di Francis Chichester.

«E se partissimo anche noi per un viaggio intorno al mondo in barca a vela? Saremmo i primi ungheresi a farlo. Che ne dici?», chiese a un certo punto il ragazzo del Finn all’amico.

L’amico non ci pensò due volte: disse subito di sì, e la decisione fu presa.

Quel giovane dal fisico perfetto scolpito in anni di lotta, sport che aveva praticato seguendo la tradizione famigliare prima di passare alle discipline acquatiche, è diventato uno dei più grandi velisti del mondo.

Nel 1993 Nándor Fa fu il primo non francese a portare a termine, e per di più conquistando il prestigioso quinto posto, la regata oceanica in assoluto più difficile, nota anche come il Mount Everest della vela, la Vendée Globe. Oggi, a 63 anni, è appena tornato dalla sua terza Vendée Globe, stavolta arrivato ottavo con la barca Spirit Of Hungary, disegnata e costruita da lui, così come tutte le barche con cui negli ultimi decenni ha solcato le acque – dei laghi ungheresi prima e degli oceani poi -, a cominciare dal suo primo Finn.

Cinque volte a Capo Horn

Nel gennaio del 2017 ha passato Capo Horn per la quinta volta e nonostante le avverse condizoni meteo ci è tornato col sorriso e col cuore traboccante di emozioni, salutando il luogo tanto temuto dai navigatori di tutti i tempi come un vecchio amico. In fondo, Nándor e Capo Horn ne avevano passate delle belle insieme, sin da quella prima volta nel 1987 quando, durante la crociera intorno al mondo in barca a vela compiuta insieme all’amico József Gál, decisero non solo di brindare con l’acqua dell’oceano che bagna l’isola, ma addirittura di riempirne una tanica da portare a casa.

Nel corso della Vendée Globe 1992-93 invece, davanti alle vicine isole Diego Ramirez, un vento di 75 nodi stese letteralmente la sua barca su un lato, trascinandola per diverse ore con l’albero a mollo nelle onde gigantesche.

 

La quinta volta a Capo Horn (© NandorFa_Onboard)

La quinta volta a Capo Horn (© NandorFa_Onboard)

Siccome le amicizie più vere si fondano sulle affinità e si consolidano grazie alle esperienze e alle avventure condivise, quella tra il leggendario velista ungherese e Capo Horn è ormai un legame indissolubile dalle radici molto profonde. Nella personalità di Nándor Fa c’è moltissimo del fascino selvaggio di quel tratto di oceano dal carattere intransigente, ma c’è anche molta della poesia del tramonto, quando l’orizzonte si veste di un magico color turchese, così come della forza di quei venti e della durezza mozzafiato di quella celebre roccia.

Dai laghi all’oceano

Non si arriva sugli oceani del Sud da un giorno all’altro, e senza un carattere come il suo non ci si arriva proprio, soprattutto se si nasce in un Paese senza sbocco sul mare. Prima di navigare tra gli albatri, si fa una lunga gavetta tra i gabbiani lacustri a bordo di imbarcazioni tra le cui dimensioni e quelle delle Imoca 60 della Vendée Globe lo scarto è grossomodo lo stesso che c’è tra l’apertura alare di un gabbiano del lago Balaton e quella di un albatro reale del Sud.

Ma senza essere quel genio creativo che è, Nándor Fa non sarebbe neanche arrivato a gareggiare sui Finn, visto che per fare il velista una condizione imprescindibile è avere a disposizione una barca a vela, e lui non ce l’aveva.

Nato nel 1953 a Székesfehérvár (Alba Reale), praticava gli sport acquatici presso il centro sportivo dello stabilimento di metallurgia leggera KÖFÉM di Agárd, cittadina che si affaccia sul lago di Velence il quale prende il nome dalla città che in ungherese si chiama come Venezia. Non si tratta solo di una coincidenza: come racconta Antonio Bonfini, storiografo di corte del re d’Ungheria Mattia Corvino, l’omonimia è dovuta ai veneti che nel corso del Quattrocento si stabilirono nella città ungherese.

Nándor Fa aveva ventisette anni quando lasciò la canoa per la vela. All’epoca lavorava ad Agárd come costruttore navale presso un cantiere.

«Se vuoi andare in barca, costruiscitela», gli hanno detto davanti al relitto di un’imbarcazione che giaceva presso il cantiere. Ci lavorò per un intero inverno, ma riuscì nell’impresa: quel rottame restaurato divenne il suo primo Finn. Era un po’ pesante, così poco dopo Nándor si mise a costruire un Finn ex novo. Con quella seconda barca era già perfettamente competitivo anche durante le regate internazionali e riuscì a entrare nella nazionale di vela.

Circumnavigare il globo: sportivi in cerca di guai

Quando con il suo amico József Gál decisero di circumnavigare il mondo, tra il dire e il fare non c’era di mezzo il mare, ma il cantiere: dovettero costruire la prima barca a vela oceanica ungherese. Tra mille beghe e con grandi sacrifici economici, nel 1981 riuscirono ad acquistare uno scafo della classe Balaton 31, lungo 31 piedi, ovvero 9,5 metri.

Si trattava di un guscio vuoto che andava trasformato in un’imbarcazione capace di reggere l’oceano. Oltre a lunghi anni di duro lavoro ci volle anche tanta inventiva, indispensabile per trovare in giro tutti i pezzi necessari alla costruzione della barca. Per andare avanti, fu addirittura necessario costruirne un’altra, un dinghy che Nándor creò per barattarlo con un motore diesel malconcio, ma utilizzabile nella futura barca oceanica che sarebbe stata battezzata San Jupát.

 

Costruendo la Spirit Of Hungary (© BaricImre)

Costruendo la Spirit Of Hungary (© BaricImre)

Molti cercarono di ricostruire vita, morte e miracoli di quel santo, ma in realtà si trattava del santo protettore immaginario dei canoisti, molto più avvezzo a bevute e donne che non alle preghiere.

Se Nándor Fa riuscì a costruire una barca a vela oceanica, a fermarlo non poteva certo essere un dettaglio insignificante come il divieto di espatrio che all’epoca vigeva in Ungheria. Nessun ente, nessuna associazione sportiva era in grado di trovare il modo legale di far autorizzare un viaggio intorno al mondo della durata di diversi anni. L’idea che uno prendesse la barca a vela e se ne andasse in giro per il globo era del tutto inconcepibile per le autorità.

Alla fine Nándor e il suo amico ottennero un lasciapassare per l’espatrio della durata di trenta giorni e il 26 settembre del 1985 salparono da Opatija. Se non avevano il permesso di andar via, in compenso non avevano nemmeno i visti per entrare in alcun Paese straniero che progettavano di visitare. Li visitarono lo stesso, ottenendo visti e permessi ogni volta arrivati sul posto.

Nel porto di Las Palmas incontrarono un marinaio che non si capacitava come mai i due, per fare il giro del mondo, volessero seguire la rotta degli oceani del Sud, irta di tempeste e di iceberg, anziché quella classica verso Ovest che li avrebbe condotti su calde spiagge popolate da belle ragazze. La risposta di Nándor fu: «Sai, Jimmi, noi siamo degli sportivi in cerca di guai».

La crociera, che affrontarono calcolando la propria posizione con l’uso del sestante, scrivendo messaggi con l’alfabeto Morse e costruendo contatti e amicizie in tutto il mondo attraverso la rete dei radioamatori, riservò loro effettivamente anche qualche guaio serio. Vicino alle isole Falkland un’onda gigantesca fece fare a Nándor un volo terrificante, nonostante fosse legato alla barca. La furia degli elementi lo strappò via da bordo sbattendolo ripetutamente in acqua e facendolo sbalzare in aria subito dopo: era in balia di forze violente che non sembravano conoscere clemenza. Fu messo a dura prova, ma lui è sempre stato più duro delle prove.

Lo spunto per poterne affrontare di nuove gli giunse proprio durante quel viaggio: ascoltando la radio scoprì che la regata in solitario BOC Challenge che faceva il giro del mondo seguendo anch’essa la rotta del Sud, passava proprio vicino a loro. Nándor Fa capì subito che quella sarebbe stata la sua prossima sfida, da affrontare a bordo di una barca che avrebbe costruito lui stesso.

Nel frattempo la crociera della San Jupát era diventata un’impresa seguitissima dai media ungheresi e i collegamenti radio con i due skipper erano attesi a fiato sospeso da tutto il Paese. Al loro rientro in patria furono accolti come dei veri e propri eroi e il libro in cui Nándor raccontò la fantastica avventura oceanica, I 700 giorni della San Jupát, divenne un best seller.

Le grandi regate oceaniche

Mentre tutti parlavano ancora della San Jupát, Nándor era già avanti di svariate miglia marine, concentrato sul progetto della prima barca ungherese da regata oceanica da costruire. Tornò in Australia per perfezionare le proprie conoscenze in materia di costruzione navale, e una volta rientrato in patria, tra il 1988 e il 1989 creò una stupenda barca di 60 piedi che per omaggiare la propria città natale, chiamò Alba Regia.

Alla BOC Challenge del 1990-91 arrivò undicesimo, e fu insignito pure del premio speciale Spirit of the BOC Challenge, fondato dagli organizzatori proprio in suo onore. Quando a Newport, città di partenza e di arrivo della regata, gli chiesero come fosse possibile che un ragazzo venuto da un Paese senza mare e per di più chiuso dietro la cortina di ferro si presentasse lì con una barca a vela hi-tech, Nándor rispose che in una sua vita precedente era stato il costruttore navale dello zar Pietro il Grande, e si ricordava ancora dei segreti del mestiere.

Riuscì a pronunciare questa frase senza scoppiare a ridere col risultato che molti giornalisti gli credettero.

Sebbene la sua fosse una battuta, sta di fatto che Nándor Fa ha l’arte della costruzione navale nel sangue. In lui convivono un grande intelletto, una mente creativa capace di sognare in grande, una raffinata sensibilità che lo fa emozionare davanti alle bellezze della natura e gli fa apprezzare la musica di qualità, la curiosità che lo spinge a leggere filosofia durante le regate, il talento di scrivere diari di bordo avvincenti, il senso dell’ironia che non lo abbandona nemmeno nei momenti più duri, insieme a una ferrea disciplina da sportivo e una dignità virile che gli rende inconcepibile l’idea di mollare.

È grazie a queste qualità che è perfettamente in grado di affrontare con successo la Vendée Globe, la regata in solitario intorno al mondo senza scalo e senza aiuti esterni la quale gli assicurò la fama mondiale dopo quel quinto posto conquistato durante l’edizione del 1992-93, portata a termine da primo concorrente non francese a bordo dell’Alba Regia ricostruita. Durante la regata gli era capitato di stare male, era debilitato fisicamente e psicologicamente. Quando alla conferenza stampa dopo l’arrivo gli chiesero come si fosse curato, rispose che a parte le vitamine, aveva rifiutato di assumere dei farmaci:

«Io penso che questa regata uno la affronti anche per conoscere i propri limiti, e non è certo stimolandosi con delle sostanze che è possibile farlo. Io disprezzo profondamente quegli sportivi che ricorrono a qualsiasi mezzo pur di vincere. In fondo lo sport è una nostra questione interna, soggettiva. Prima di tutto dobbiamo vincere noi stessi, e con i sotterfugi uno non può capire quanto vale, prende solo in giro se stesso e gli altri».

Partecipò alla Vendée Globe del 1996-97 a bordo della sua seconda barca di 60 piedi, la Budapest. Fu purtroppo un’edizione nefasta che costrinse al ritiro molti grandi velisti compresa Isabelle Autissier e sfociò in tragedia con la scomparsa di Gerry Roufs. Nándor ebbe diversi problemi tecnici all’inizio, tutti superati, ma la sua gara venne vanificata dallo scontro avvenuto con una petroliera panamense che si trovava fuori rotta.

Andò molto meglio alla Transat Jacques Vabre del 1997 dove Nándor e il suo co-skipper arrivarono quarti. Successivamente nella vita del grande velista ungherese seguì un lungo periodo di lontananza dalle regate oceaniche durante il quale si dedicò alla propria famiglia e fondò un’azienda di marina nella sua città natale, con cui costruì strutture portuali sull’Adriatico, oltre che sulle rive di laghi ungheresi e austriaci. Nello stesso periodo fondò anche il Gran Premio TBS, una spettacolare regata in solitario sul lago Balaton che si svolge tuttora ogni anno.

 

La Spirit Of Hungary alla Vendée Globe 2016-17 (© C. Favreau)

La Spirit Of Hungary alla Vendée Globe 2016-17 (© Favreau)

Siccome Nándor Fa non lascia mai niente a metà, la Vendée Globe non poteva fare eccezione. Così nel 2012 ha deciso di avviare un nuovo ambizioso progetto che avrebbe compreso la costruzione di una barca classe Imoca 60 e una serie di grandi regate oceaniche da coronare con quella per eccellenza, la Vendée Globe 2016-17. La barca nata da questo progetto è la Spirit Of Hungary, disegnata e costruita sempre da Fa con l’aiuto di professionisti ungheresi in grado di realizzare un’imbarcazione super tecnologica. Erano passati un bel po’ di anni dalla sua ultima regata oceanica, ma né lo spirito, né il fisico di Nándor ne hanno risentito. Così a sessant’anni suonati è tornato sugli oceani in forma smagliante, con la stessa forza mozzafiato di sempre nei muscoli e con la stessa determinazione che gli si legge sul viso oggi come ai tempi della San Jupát.

L’edizione 2014-15 della Barcelona World Race che ricalca la storica clipper route, ovvero la rotta dei vascelli veloci dell’Ottocento, l’ha visto al timone della Spirit Of Hungary insieme al co-skipper neozelandese Conrad Colman. Nándor e Conrad erano rispettivamente il più anziano e il più giovane tra i concorrenti della durissima gara in cui si sono classificati settimi. Nel corso della Transat Jacques Vabre del 2015, che Nándor ha affrontato insieme al co-skipper Péter Perényi, si è rotto l’albero costringendoli al ritiro. In seguito Nándor ha ricostruito l’albero partendo da un “tubo per stufa”, come l’ha chiamato lui, ovvero da un albero di eccellente qualità acquistato in Svezia, che con diversi mesi di lavoro ha adattato alle esigenze della propria barca raggiungendo stavolta la perfezione: mentre nel corso della Vendée Globe 2016-17 diversi skipper hanno visto spezzarsi l’albero, quello di Nándor puntava alle stelle anche in mezzo alle tempeste senza mai costringerlo a doverci salire sopra.

Il rapporto di Nándor con la sua barca è caratterizzato proprio da questa sintonia.«Si diventa velisti quando uno sta seduto in barca e sente che dalla cima dell’albero fino al fondo della chiglia tutto fa parte di sé. Io e la barca siamo due corpi e un unico sistema nervoso», ha spiegato in un’intervista.

La sua è un’attività estremamente creativa, non solo nella fase in cui immagina, disegna e costruisce una nuova barca, ma anche durante la navigazione. Bisogna disegnare e costruire ogni miglio che si percorre, e oggi questo non si fa più con il sestante, ma con raffinate strumentazioni hi-tech in grado di fornire informazioni precise sul meteo anche a distanza di svariati giorni. In una regata come la Vendée Globe a fare la differenza è la tattica meteo scelta dallo skipper il quale deve essere in grado di analizzare una moltitudine di informazioni in merito al vento, alle correnti e alle onde. Tutto questo in condizioni spesso proibitive: dormendo pochissimo e male, con addosso vestiti perennemente bagnati e gelidi. L’eroico velista ungherese dormiva pochi minuti alla volta su una poltrona sacco, sempre pronto a scattare se c’era da cambiare una vela.

Nándor ha affrontato queste sfide con totale dedizione e abnegazione senza mai fare, durante i 93 giorni della sua gara, alcuna concessione a sonno, stanchezza o distrazioni. «Il fatto di essere in grado di portare a termine la gara non è sufficiente. Qui quello che conta è la prestazione», ha dichiarato all’arrivo.

Nei suoi diari di bordo Nándor Fa utilizza, come consuetudine nella navigazione, il cosiddetto tempo coordinato universale, l’UTC. Si tratta di uno standard di estrema precisione, di un punto di riferimento assoluto per indicare l’orario di ogni evento o attività. In senso metaforico l’esempio e lo spessore umano di Nándor Fa possono essere l’UTC per tutti noi, sportivi e non: in qualunque campo operiamo, se pensiamo a come agirebbe lui, immancabilmente ci renderemo conto di essere in ritardo e capiremo quante cose possiamo ancora migliorare sulla barca della nostra vita.

Francesca Bertha
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