Ben Johnson

Ben Johnson

Ben Johnson

 

La finale maledetta

Progredire significa superare i limiti, annullare quell’ostacolo, fisico o emotivo, che impedisce di migliorarsi. Nello sport la progressione è d’obbligo più che sul mercato dell’informatica: in caso di fallimento non metti in vendita un prodotto poco valido ma sei tu, uomo, a pagare; a lungo andare le sconfitte portano a credere di non poter più stare al passo di ipotetici futuri successi. E una volta essere stato glorificato sull’altare degli eroi chi vorrebbe ricadere negli abissi dei comuni mortali?

Massacrati da diete strettissime e da ancor più duri allenamenti, per gli atleti un margine di sollievo offerto da una semplice iniezione o da una pastiglia deve apparire come una benedizione. Non c’è da meravigliarsi quindi che la competizione sportiva, non solo ai livelli più elevati, sia minacciata dal doping.

Memorabile fu, a suo tempo, il caso del velocista canadese Benjamin Johnson, vistosi sfilare dal petto una medaglia d’oro che venne poi consegnata al rivale Carl Lewis.

La vicenda si svolse in una cornice controversa: le Olimpiadi di Seul. Venne infatti selezionata come sede dei Giochi la Corea del Sud scatenando non poche polemiche. Il Paese apparteneva ad una fazione di influenza occidentale dopo la guerra che aveva sancito il frazionamento fra le due Coree: favorirlo avrebbe significato fare uno sgarbo all’area orientale e, indirettamente, anche all’Unione Sovietica, che già di recente aveva subito il boicottaggio dell’Olimpiade di Mosca.

Johnson ai blocchi di partenza (© Getty Images)

Johnson ai blocchi di partenza (© Getty Images)

 

Si tenta così una debole negoziazione fra le nazioni: le due Coree, ormai separate da oltre un ventennio, cercano di cooperare nell’organizzazione dei Giochi, ma il tentativo, già di per sé arduo, fallisce per la pretesa della Corea del Nord di partecipare allo stesso numero di gare di quella del Sud. La proposta viene respinta, e per diretta conseguenza dell’esclusione della Corea del Nord dalle Olimpiadi anche altri Paesi, come Cuba e l’Etiopia, rifiutano di prendervi parte. L’Urss, con grande stupore di molti, conferma invece la propria partecipazione, e da quel momento si comincia ad intravedere nei Giochi la possibilità di una riconciliazione fra i due blocchi.

L’evento, coordinato dal presidente del CIO Juan Saramanch, assume per la prima volta proporzioni mediatiche universali grazie alla partecipazione di ben centocinquantanove Stati. L’atletica leggera, soprattutto, registra un record di presenze mai visto: centoquarantanove nazioni, un numero esorbitante rispetto alle centoventiquattro di Los Angeles. Sono undici i Paesi alla prima partecipazione, fra cui la Mauritania, le Maldive e il Paraguay.

Il 17 settembre 1988 segna quindi l’inizio delle gare che si concluderanno il 2 ottobre, ma sarà un’altra la data che si imprimerà nella storia di queste Olimpiadi: il 25 settembre, una giornata che vedrà mobilitarsi la stampa di mezzo mondo.

Lo scontro più atteso

Il giorno prima gli occhi dei tifosi sono puntati sugli schermi dei televisori: sta per essere trasmessa la finale dei cento metri, una gara che si preannuncia come la più combattuta di tutta l’Olimpiade.

A fronteggiarsi sono in particolare due atleti di primo livello, protagonisti di un duello sportivo di grande appeal, condito da una malcelata antipatia reciproca: Carl Lewis e Ben Johnson, USA vs. Canada.

Quattro anni prima, all’Olimpiade di Los Angeles, Lewis e Johnson avevano centrato rispettivamente il primo ed il terzo posto; era stata la seconda medaglia di bronzo per Ben che ne aveva già conquistata una nella staffetta canadese. Ora, però, i tempi erano cambiati: Johnson aveva guadagnato la sua fama battendo Lewis, campione in carica, ai Campionati Mondiali del 1987 a Roma con il suo primo reord (9’’ 83). Da allora gli sprinter si erano sfidati in altre sedici gare, con un bilancio di dieci vittorie per Carl contro le sette di Ben. Nell’ultimo periodo la loro rivalità si era notevolmente inasprita, considerando che, su sette scontri, Johnson aveva concesso all’avversario di spuntare una sola vittoria, nel 1988, a Zurigo, dove Lewis aveva stabilito un nuovo primato (9’’ 93). A Seul Ben cerca la consacrazione definitiva.

Lewis e Johnson sono allineati sui blocchi di partenza, occupano la terza e la sesta corsia, gravando come ombre scure sul terreno di gara. L’espressione di Johnson è quasi minacciosa, complici il collo taurino e le sclere degli occhi dalle sfumature gialle. Se ne sta appollaiato nella posizione che lo contraddistingue, detta “a rana” per la peculiarità di mantenere entrambi i piedi sulla stessa linea anziché sostenere il peso del corpo con il piede d’appoggio più avanti. Era questa originale postura a garantirgli un vantaggio durante la gara, perché, nell’istante della partenza, permetteva di lanciarsi subito in avanti con entrambe le gambe.

Ben Johnson taglia il traguardo. Carl Lewis è battuto (© Getty Images)

Ben Johnson taglia il traguardo. Carl Lewis è battuto (© Getty Images)

 

Poco distante, Lewis appare più aggraziato rispetto al canadese: il suo fisico sottile e slanciato gli conferisce una parvenza innocua. Non per altro lo chiamano “Il Figlio del Vento”: la sua leggerezza abbinata all’incredibile velocità lo rende quasi etereo durante i tempi frenetici della corsa.

Fra loro sono posizionati altri due sprinter degni di nota, che avrebbero dato del filo da torcere ai campioni: l’inglese di origine caraibica Linford Christie e l’americano Calvin Smith, che per anni aveva detenuto il primato in quella specialità.

Alla partenza Johnson scatta in avanti e si solleva in posizione eretta; come previsto, si avvale già di qualche metro di vantaggio sul resto del gruppo. La gara non dura più di dieci secondi, neanche il tempo d’un battito di ciglia per rendersi conto che il colosso canadese ha annientato gli altri concorrenti con il tempo schiacciante di 9’’ 79 ed ora continua a correre sulla pista con un dito sollevato come a sfidare il cielo. Giusto un’occhiata indietro, dopo aver tagliato il traguardo, per contemplare Lewis alle sue spalle e poi Ben non si ferma più: capisce di aver rivoluzionato lo sport con quel nuovo primato mondiale.

Trionfo e caduta

La folla cade letteralmente in delirio per il campione che ha sconfitto l’imbattibile simbolo americano. La stampa lo acclama e lo venera, in un articolo il giornalista Gianni Brera lo definisce «l’ultima incarnazione di Ercole semidio, un superuomo che forse non appartiene alla nostra specie”. La vittoria ha assunto il fascino delle imprese incredibili ed ora viene diffusa di voce in voce, chiacchierata in ogni casa ed in ogni bar, ed ognuno in cuor suo sente di essere un po’ amico di Ben Johnson, vorrebbe stringergli la mano e complimentarsi con lui.

Ma mentre il cono di luce abbandona Lewis per concentrarsi sul giovane atleta di origini giamaicane, un’inquietante rivelazione cresce nell’ombra: in laboratorio, in seguito ad un’analisi delle urine, in un flacone ancora anonimo vengono riscontrate tracce di stanozolol. Mediante un confronto fra i due campioni di analisi richiesti ad ogni atleta, l’équipe medica riscontra la verità: il flacone sotto accusa appartiene a Johnson. La commissione, presieduta dal principe belga Alexandre de Mérode, respinge i tentativi di difesa dei canadesi a favore del loro atleta e conferma il ritiro della medaglia. Il podio della gara così si ricostituisce: il primo posto spetta a Lewis, mentre il secondo ed il terzo vengono assegnati a Linford Christie e a Calvin Smith. Due giorni dopo l’agenzia di stampa France Presse è la prima a dare la notizia: Johnson, il campione, è risultato positivo al doping. Per Ben la caduta dall’orlo del precipizio è appena cominciata.

 

Accuse e smentite

La prima reazione di Johnson è la più classica: negare, negare, negare anche di fronte all’evidenza. L’atleta accenna ad un sabotaggio, riversa la sua rabbia contro gli americani alleati di Lewis, racconta di una certa birra offertagli proprio prima della gara che avrebbe potuto contenere sostanze anabolizzanti.

Johnson sostiene con chiarezza: «Stavano diventando paranoici perché battevo regolarmente Lewis».

I suoi tentativi di difesa vengono però del tutto annientati dalle testimonianze del suo medico Jamie Astaphan e dell’allenatore Charlie Francis, nell’inchiesta gestita dal vice-procuratore Charles Dubin. I due sostengono di averlo iniziato alla pratica del doping, in particolare il dottore ammette di aver preparato personalmente le sostanze per Johnson, steroidi come dianabol, stanozolol, furazabol e testosterone che lui assumeva quotidianamente dal novembre del 1981.

La pratica veniva condotta da anni senza mai risultare evidente ai controlli, eppure un errore nel frangente dell’Olimpiade si rivelò fatale: Astaphan segnalò che le sostanze non dovevano essere assunte nei ventotto giorni precedenti alla gara, ma si tradì iniettandone una dose a Ben ventisei giorni prima della finale per incentivare il recupero muscolare in seguito ad un incidente avvenuto a Zurigo.

Le verità ammesse dal medico e dal coach sono troppo evidenti per essere ignorate: la carriera di Johnson è ormai stroncata, il suo record viene cancellato così come tutti i precedenti.

i giornali di tutto il mondo parlano di lui

i giornali di tutto il mondo parlano di lui

 

Ben confessa le sue colpe, ma non rinuncia a difendersi: «Mi facevano lavorare per più di quaranta ore alla settimana e nessun atleta sarebbe potuto sopravvivere senza un aiuto. Ad un certo punto è il tuo corpo che ti dice di smettere».

Ancora oggi, Johnson non ha rinunciato a voler affermare la propria giustizia. A cinquant’anni compiuti, mentre si dedica alle incombenze di nonno occupandosi della nipotina Jeneil, non dimentica la grande umiliazione che ha segnato il resto della sua vita.

Non cessa di ripetere, inoltre, che lo stanozolol avrebbe potuto procurargli gravi danni; si trattava infatti di un anabolizzante che non agiva soltanto incrementando le masse muscolari, ma anche sulla mente, incentivando l’aggressività. Il suo furore contro Lewis non si è ancora sopito: continua a sostenere l’idea di un complotto ordito a suo discapito ed un margine di dubbio resta, considerando che lo stesso Figlio del Vento ha ammesso di essere risultato positivo al doping tre volte, seppur con la difesa di aver assunto gli stimolanti involontariamente come prodotti d’erboristeria. Anche il vincitore della medaglia d’argento, Linford Christie, venne trovato positivo alla pseudofedrina. Fu però assolto, perché il CIO credette alla sua versione secondo cui la sostanza si trovava in una certa bevanda al ginseng.

L’unico a soccombere sembra essere stato il povero Ben, che non si dà pace: tuttora si batte con il suo consulente legale, Dianne Hudson, per incastrare il membro dell’entourage di Lewis che gli avrebbe offerto il bicchiere incriminato. Quando le pronuncia, le sue parole sembrano riflettere lo stesso tormento di vent’anni fa, di quegli attimi in cui si dimenava lottando nelle acque della vergogna senza capire di spingersi così sempre più a fondo: «Gli americani non possono tollerare di arrivare secondi, non è nella loro mentalità. Per questo hanno riempito il mio drink con abbastanza robaccia da  uccidere una mucca. Direi che sono stato fortunato ad andarmene da Seul vivo».

Ci aveva provato Ben a tornare in campo, ai Giochi di Montréal nel 1993, ma era risultato di nuovo positivo al testosterone. A quell’incidente, però, non accenna affatto: forse non ha ancora trovato un valido nemico da incolpare, oltre a sé stesso.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

 

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