Marc Girardelli

Marc Girardelli

Marc Girardelli

 

Il campione che ha battuto la sfortuna

Alle volte capita ancora di vederlo ai margini di qualche evento sportivo importante, sorridente, distaccato, confuso tra il pubblico, spesso è accompagnato dalla famiglia.

Una carriera durata diciassette anni la sua, dal 1980 al 1997, con cinque Coppe del Mondo di sci vinte per un totale di quarantasei successi nelle varie discipline e trionfi al Lauberhorn, sulla mitica Streif e su ogni altra pista degna di nota. In uno stesso anno, nella stagione 1988/1989, si è aggiudicato persino tutte le cinque coppe di specialità, e vanta 28 secondi posti e 26 terzi oltre ad avere in bacheca 11 medaglie, di cui 4 d’oro, ai Campionati del Mondo: questa è la carta di identità di Marc Girardelli.

No non c’è poesia nella storia di questo atleta, perché la grandezza da lui espressa è storia di forza e coraggio, di volontà e resurrezioni.

Spesso ci si domanda chi sia stato il più grande in una disciplina, se il leggendario Ingemar Stenmark, che rivoluzionò la tecnica dello sci tra i paletti e vinse qualcosa come 86 gare in Coppa del Mondo, oltre a svariati allori Mondiali e Olimpici, o il grande Gustav Thöni, vincitore di tre Coppe del Mondo consecutive, o il funambolico Alberto Tomba. E, perché no, Bode Miller e Pirmin Zurbriggen o il più datato Toni Sailer. Nessuno di loro, però, ha mai dovuto lottare tanto contro la sfortuna come lo sciatore austro- lussemburghese.

Girardelli in azione

Girardelli in azione

 

Sì, perché la grandezza di Girardelli sta soprattutto in questo, nell’esser stato più forte di tutto, avversari e malasorte, aver superato barriere fisiche e psicologiche tali da frenare o scoraggiare un gigante, e l’essere stato in grado di riprogrammare i propri assetti coordinativi dopo ogni infortunio, ogni operazione, riuscendo ogni volta a non perdere efficacia e velocità di sciata.

Forse ci si nasce con caratteri del genere, o forse ci si costruisce giorno dopo giorno, con metodicità, programmazione, pazienza, incrollabile fiducia in sé stessi ed a costo di immensi sacrifici.

Certo che quattordici cicatrici sulle ginocchia, quasi una per ogni anno di attività, sono un calvario difficile da salire.

Due contro tutti

Marc fin da piccolo ha vissuto per arrivare, per diventare un campione e per quello ha sacrificato tutto, la spensieratezza della gioventù, le serate con gli amici e le ore piccole in dolce compagnia.

È stato fin da subito un predestinato, ma la strada per lui non è stata mai in discesa, e la scelta di abbandonare la nazionalità austriaca per gareggiare da indipendente sotto i colori del Lussemburgo, fu solo la prima di una serie infinita di difficoltà. Fu suo padre Helmut l’artefice di tutto questo e la causa scatenante fu una divergenza sui metodi di allenamento del figlio e su chi lo dovesse allenare.

Marc con l'inseparabile padre-allenatore Helmut

Marc con l’inseparabile padre-allenatore Helmut

 

Helmut non aveva dubbi a riguardo, lui era l’unico depositario dei segreti inerenti i futuri successi del figlio. E così, via, armi e bagagli in spalla, e arrivederci ai burocrati austriaci.

Giorni, settimane, ed anni sempre in due, quasi una persona sola, due contro tutti, per dimostrare al mondo che si poteva essere contro il sistema ed allo stesso tempo vincere; senza costosi e numerosi staff al seguito, solo il loro camioncino delle meraviglie a salire e scendere i declivi di mezzo mondo, a piazzare porte, inventarsi percorsi, per colmare con ore ed ore di allenamento il gap dall’organizzazione e dalle disponibilità economiche delle federazioni internazionali.

Ad Albertville 1992, quando in vantaggio su Alberto Tomba fino all’ultima porta, nel piano finale fu sopravanzato di 32 centesimi dall’italiano e perse l’oro olimpico di Slalom gigante, fu chiaro che erano stati soprattutto i materiali a fare la differenza, ma era lo scotto inevitabile da pagare ad una vita da indipendente.

L’alloro olimpico fu il suo unico grande rimpianto, il solo a sfuggirgli sempre, come una maledizione che si fermerà ai due argenti di quell’edizione.

Una storia di rincorse, la sua, di sfide con se stesso e con la vita, che non lo vide mai soccombere perché la prese per i capelli e come un concorrente di un rodeo gli restò aggrappato cocciutamente senza farsi disarcionare, un’ostinazione che nel 1990 gli consentì di riprendersi anche dopo la grave caduta occorsagli sulle nevi del Sestriere ed in conseguenza della quale si pensava rischiasse persino di rimanere paraplegico.

Marc impegnato in uno slalom gigante

Marc impegnato in uno slalom gigante

 

La sua volontà riuscì dove neanche la medicina poteva sperare di spingersi, e nella stagione successiva, la 1990-1991, Marc tornò ad aggiudicarsi la Coppa del Mondo, la quarta, dopo quelle del 1985-1986 e 1989, arrivando primo anche nella graduatoria di slalom speciale e vincendo ai Mondiali di Saalbach l’oro nella stessa disciplina.

Cosa avrebbe potuto vincere senza quegli stop forzati, nessuno può dirlo. Schivo, chiuso, concentrato sui suoi allenamenti e sulle sue gare, Marc Girardelli sorrideva raramente ed in genere lo faceva quando vinceva.

Nel 1993 si aggiudicò la sua quinta ed ultima Coppa del Mondo, tenendosi dietro per una manciata di punti l’astro nascente norvegese Kjetil Andrè Aamodt, e vi riuscì solo grazie alla volontà che lo spinse a correre le ultime gare della stagione con un legamento crociato a pezzi.

Tra vittorie e infortuni

Aveva cominciato nel 1980, il suo primo podio risale alla stagione 1980-81, nello slalom speciale di Wengen, a diciassette anni; la prima vittoria al 27 febbraio 1983: rivaleggiava coi migliori, era il tempo in cui regnava ancora sua maestà Stenmark. Poi gli anni Ottanta li spese a ribattere colpo su colpo allo storico rivale elvetico Pirmin Zurbriggen, col quale si divise equamente otto Coppe del Mondo, e alle soglie di un nuovo decennio, metteva in riga pure i campioni del futuro.

Quando Marc si affacciava al cancelletto di partenza i cuori si fermavano, l’attenzione era tutta per lui, non contava niente chi fosse sceso prima, che tempo avesse fatto, quanto bravo fosse stato, lui poteva rovesciare tutto, cambiare le carte in tavola, era solo dopo la sua prova che si sarebbe capito l’esito della gara.

Nel 1996, a 33 anni suonati, e dolori sempre nuovi con cui convivere, Girardelli vincerà ancora il suo ultimo oro mondiale nella combinata di Sierra Nevada e nel dicembre del 1997 si ritirerà dall’attività agonistica, dopo aver vinto il 21 gennaio dello stesso anno la sua ultima combinata in Coppa del Mondo.

Dopo la prima operazione subita ai legamenti del ginocchio sinistro nel 1983, il professor Steadman gli aveva pronosticato difficoltà future nel camminare, dopo la seconda gli diagnosticarono invece una disabilità del 15% sull’arto operato: lui non ci volle mai credere e spinse i suoi sogni oltre le apparenze.

Lo stile di Marc

Marc Girardelli è stato uno sciatore naturale, un talento a cui la vita non ha risparmiato nessun tipo di prova, un uomo che ha deciso di deviare da quella che sembrava la strada tracciata per lui, ma che con le sue mani, la sua determinazione ed il suo coraggio se ne è costruita un’altra, altrettanto grande ed importante. È stato uno sciatore dall’eleganza infinita, sia tra i pali che in discesa, un polivalente che scivolava sulla neve e a cui sembrava che la neve stessa obbedisse assecondandone con arrendevole dolcezza sterzate e scivolate. Forse non era troppo simpatico, forse era chiuso, taciturno, forse non faceva vita sociale, e viveva solo per lo sci, ma suo padre lo aveva allevato così, «l’unica via giusta è quella diritta» gli aveva detto, e lui non uscì mai di pista.

Oggi Marc è ambasciatore di un ditta che crea tecnologie per migliorare il recupero e la prevenzione dopo traumi sportivi. Lo sci adesso è un piacere, un passatempo a cui dedicarsi con la famiglia per lui che una volta per non perdere punti in classifica, appena operato, scese comunque in gara con addosso ancora applicate le cannule del drenaggio.

C’era evidentemente qualcosa di più che una vittoria in ballo dietro quella scelta, c’era qualcosa simile al grido di un animale ferito che trovava pace solo nell’adrenalina di una discesa, c’era l’agonismo esasperato di chi rischiava di spingersi fin oltre il limite che separa il coraggio dall’incoscienza.

Marco Tonelli
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