John James Williams

John James Williams

John James Williams

 

Il levriero gallese

È uno sport onesto, leale, umile, si gioca con le mani e solo occasionalmente si fa ricorso ai piedi, lo giocano uomini in pantaloni corti e scarpe chiodate, dalla forza fisica e mentale impressionante. Qualcuno lo ha definito uno sport bestiale giocato da gentiluomini, altri una partita a scacchi giocata in velocità, in realtà trattasi di rugby, la quintessenza dello sport.

Qualcuno nel praticarlo è avvantaggiato dal fisico, altri per sopravvivere devono ricorrere all’astuzia, John James Williams, nato a Nantyfllyllon il 1 aprile 1948, si giocò tutto sulla velocità.

Poteva continuare a frequentare le piste di atletica come aveva fatto nei primi anni di scuola e dove da subito era parso chiaro che fosse un predestinato, ma nel 1971, dopo che nel 1970 aveva già fatto parte della rappresentativa gallese partecipante ai Giochi del Commonwealth tenutisi ad Edimburgo e di quella del Regno Unito impegnata nelle Universiadi svoltesi a Torino, il ragazzo decise di mollare tutto e seguire l’insopprimibile richiamo della palla ovale, confermando il detto secondo cui ogni gallese o è nato su campo da rugby o vi è stato concepito.

Alla corte di Carwyn James

Inizia così a spellarsi le ginocchia infilando accelerazioni su accelerazioni in mezzo a grovigli di braccia e mani che invano gli tendono agguati ed abbracci mortali nelle file dei Bridgend Ravens, ma solo dopo un anno è già alla corte del Llanelli RFC, allenato dal leggendario Carwyn James e dove rimarrà fino al termine della carriera.

Le potenzialità della piccola ala di Nantyfllyllon sono subito evidenti tanto da indurre l’esperto coach degli Scarlets ad includerlo tra coloro che affronteranno i mitici All Blacks il 31 ottobre 1972.

Dalle parti di Stradey Park ricordano ancora tutti quel giorno, the day the gods smiled on the Scarlets, il giorno che gli dei sorrisero agli Scarlets, e ne festeggiano ancora la ricorrenza.

La straordinaria impresa degli Scarlets contro gli All Blacks. Anche Williams in campo

L’impresa degli Scarlets contro gli All Blacks. Anche Williams in campo

 

Il 9 a 3 finale a favore della squadra di casa e le giocate che portarono a quel risultato sono scolpiti nella memoria di chi vi assistette, perché battere gli All Blacks non era e non sarà mai una cosa normale, perché battere gli All Blacks è come conquistare una fetta di gloria e portarsela per sempre dentro, è l’evento eccezionale che può valere una vita, una vita da rugby ben inteso.

J.J.Williams quel giorno c’era, anche se non segnò alcun punto, e questo gli valse quanto una laurea, tanto che nessuno osò scandalizzarsi quando per il torneo delle Cinque Nazioni del 1973 arrivò la sua prima convocazione in nazionale.

L’esordio in maglia rossa però non sarà dei più felici: il Galles infatti dovrà inchinarsi alla Francia per 12 a 3, ma questo non sarà determinante per il prosieguo del torneo, visto che al termine della competizione tutte le nazioni partecipanti concluderanno con gli stessi punti.

L’intesa con i compagni, però, cresce di partita in partita e la velocità di Williams diventa l’ideale terminale delle azioni poste in essere da giocatori che a seconda dell’occasione possono rispondere ai nomi di Phil Bennet, Gareth Edwards o John Peter Rhys Williams. Sono tutti fenomeni, gente da libro delle leggende del rugby, ma fra loro il piccolo John James non sfigura, anzi.

È un Galles che fa paura e la conferma è il 24 a 0 che infligge alla temuta Australia.

Per assistere però alla prima mèta di J.J. occorre aspettare ancora, fino al 1974, quando in occasione del pareggio 9 a 9 conseguito contro l’Irlanda finalmente il ragazzo rompe il ghiaccio e schiaccia in mèta.

Dopo solo due anni di attività J.J.Williams viene così scelto per far parte della selezione dei migliori giocatori britannici, denominata British & Irish Lions, che parte alla volta del Sud Africa per una tournée organizzata in quel paese: è la sua consacrazione.

La consacrazione mondiale

Il Sud Africa è all’indice dello sport internazionale per via dell’apartheid, ma è indubbio che gli Afrikaner rappresentino una potenza nel mondo del rugby.

È il 1974 e questa serie di incontri internazionali verrà ricordata come la “Invincible Series” perché la selezione britannica rimarrà imbattuta per ben 22 partite e J.J., come ormai tutti lo conoscono per distinguerlo dall’altro Williams, in arte JPR, segnerà ben dodici mete di cui sei in uno stesso incontro. Le sue realizzazioni sono sempre lampi accecanti, inneschi deflagranti che finiscono con l’aprire varchi fatali nelle maglie delle difese avversarie, la sua intesa con Gareth Edwards e con l’omonimo JPR Williams è davvero eccezionale e le loro combinazioni sono gioia per gli occhi.

Una delle mete di J.J. Williams durante la tournée sudafricana del Galles

Una delle mete di J.J. Williams durante la tournée sudafricana del Galles

 

Persino i sudafricani rimangono impressionati dalle sue qualità, ed a causa delle quattro mete subite dal gallese nel secondo e terzo incontro che li vedrà opposti, lo ribattezzeranno “The Welsh Whippet”, facendo riferimento alle sue origini ed al veloce levriero usato in Inghilterra prima per la caccia alla lepre e poi per le corse dei cani. Lui con quel soprannome passerà alla storia.

Nel 1975 arriva finalmente anche il primo alloro internazionale ed è il prestigioso trofeo delle Cinque Nazioni a finire nella bacheca di Williams e compagni, che per dare ulteriore lustro a quel successo, pensano bene di rifilare un passivo di 28 a 3 ai malcapitati australiani nell’amichevole del 20 dicembre. In quell’occasione J.J., segnerà la sua prima tripletta in nazionale e assurgerà definitivamente alla popolarità che le sue doti meritano. Non esiste ancora un vero Campionato Mondiale di Rugby, ma se vincere il Cinque Nazioni equivale a sentirsi i più forti del Vecchio Continente, far fuori in quel modo una delle due potenze del rugby australe, autorizza a considerarsi sul podio del pianeta.

È l’ala imprendibile di un grande Galles, che in tutto e per tutto può reggere il confronto con quello che dal 1969 al 1971 vinse per ben tre volte di fila il torneo delle Cinque Nazioni, ed anche se dopo il successo del 1976, nel 1977 ci si dovrà accontentare della “Triple Crown”, il riconoscimento simbolico che si dà a chi batte le altre tre nazioni britanniche, i “Reds” si rifaranno nei due anni successivi, infilando un’altra doppietta che li spedirà dritti dritti nella leggenda .

Quattro titoli in cinque anni e la soddisfazione di aver centrato per ben due volte il Grande Slam, battendo nel 1976 e nel 1978 tutte le partecipanti al torneo.

Il Galles degli Invincibili

Il Galles degli Invincibili

 

Il tempo però comincia a chiedere il suo inevitabile tributo e dopo l’edizione del 1978, due pilastri come Phil Bennett e Gareth Edwards decidono di lasciare l’attività ed aprono un vuoto quasi incolmabile all’interno dei “dragoni”.

Nel 1979 nel tempio di Cardiff, al cospetto di un popolo devotamente accorso per rendergli il meritato riconoscimento, anche J.J. Williams giocherà la sua ultima partita con la maglia del Galles e lo farà alla grande, realizzando per l’occasione la sua ultima mèta internazionale, nel 27 a 3 con cui i “dragoni” ridurranno al silenzio gli storici rivali inglesi.

Aveva 31 anni, si lasciava alle spalle 30 presenze in maglia rossa, 12 meravigliose mete e svariati trofei a livello di club; il suo omonimo John Peter Williams resisterà invece fino al 1981, anno in cui anche lui lascerà la palla ovale per diventare un apprezzato ortopedico.

Tramontava così la generazione degli invincibili, dei ragazzoni con i capelli e le basette lunghe, ed il Galles dovrà aspettare il 1988 prima di poter risollevare al cielo, seppure in coabitazione con la Francia, il titolo del Cinque Nazioni.

Una volta usciti dal campo, quei giocatori intrapresero con altrettanto impegno e dedizione altre carriere professionali, a testimonianza di come lo sport, ed il rugby in particolare, avesse insegnato loro oltre alla tecnica di un placcaggio o di una touche, anche il valore di parole come impegno, sacrificio, sofferenza e rispetto, insomma la quintessenza della vita.

Oscar Wilde amava dire che il rugby era una buona occasione per tenere trenta energumeni lontani dal centro città, ma per chi ha visto giocare quel Galles e negli occhi conserva ancora le folli corse di J.J.Williams, il rugby probabilmente ha un altro significato, più ancestrale forse, primordiale magari, ma comunque bellissimo, come bellissime sono le corse delle gazzelle braccate dai leopardi, feroci eppure intrise del senso ultimo della vita, la sopravvivenza.

Ci sono sport in cui si fatica a trovare parallelismi con la vita, nel rugby non è così, è tutto drammaticamente chiaro, così come è chiara la supremazia della ragione sull’istinto, dell’autocontrollo sulla paura e sulla rabbia, perché c’è una linea sottile che separa la violenza dal gioco e quella si chiama rugby.

J.J. con il figlio Rhys, corridore nei 400 ostacoli ai Giochi di Londra

J.J. con il figlio Rhys, corridore nei 400 ostacoli ai Giochi di Londra

 

J.J.Williams oggi è un apprezzato commentatore televisivo oltre che un imprenditore di successo ed i figli hanno tutti seguito le orme paterne cimentandosi con discreto profitto nel campo dell’atletica leggera. Alle Olimpiadi di Londra 2012 il figlio più piccolo, Rhys, ha corso i 400 ostacoli.

Tra le varie citazioni più o meno retoriche che vengono in mente pensando a quel Galles la sola che sembra poterne spiegare davvero l’anima è questa: «Gli inglesi giocano a rugby perché lo hanno inventato, gli scozzesi e gli irlandesi perché sono i loro nemici giurati, i gallesi invece perché ognuno di loro o è nato su un campo da rugby o vi è stato concepito».

Guardare J.J.Williams correre con la felicità di un bambino in mezzo a grovigli di braccia e mani invano protesi a tendergli agguati convinceva che fosse proprio così.

Marco Tonelli
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