Gabre Gabric

Gabre Gabric

Gabre Gabric

 

Cent’anni da campionessa 

Di quel lontano agosto 1936 non è rimasta che qualche immagine sbiadita ad illustrare i libri di storia: figure sgranate, che non permettono di percepire con chiarezza quanto fossero vividi i suoni, le luci, i colori quel giorno all’Olympiastadion di Berlino. Su tutte domina il ritratto di quell’uomo dai corti baffetti rigidi che scruta dall’alto delle tribune con sottili occhi glaciali.

Di altri non resta neppure tanto. Lei però c’è; ben oltre quella fotografia che la ritrae in bianco e nero nella luce opalescente che conferisce all’immagine contorni sbiaditi, spettrali, quasi non le fosse concesso resistere all’avanzata del tempo. Gabre Gabric, in carne ed ossa, può raccontare ancora di più. Sono impresse nella sua mente le voci, l’atmosfera, le speranze che animarono gli atleti, protagonisti della gara nel tempio del Reich.

Lanciatrice del disco, è lei l’ultima rappresentante dei 182 azzurri alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Quel libro di storia illustrato è in grado di farlo a pezzi con due parole: «La stretta di mano mancata fra Hitler e Owens fu un’invenzione. Hitler non stringeva la mano a nessuno: il protocollo non lo prevedeva». Neppure Gabre si avvicinò tanto al Fuhrer, simbolo demoniaco di un mondo alle armi, di certo però ebbe l’occasione di vederlo senza lo schermo ipocrita di ideali e mitizzazioni. Di lui ora conserva un’opinione singolare : «Era una piccola persona insignificante, ma con occhi bestiali».

Resta ancora molto da raccontare e non solo di quell’unica Olimpiade. Gabre Gabric si è fatta beffe del tempo: mentre i manuali di storia si inchiodano su date scritte a caratteri evidenziati quasi fossero irrimediabili, definitive, distruttive; lei è andata avanti, ha afferrato la vita correndo, vincendo, lanciando.

Come si vivono cento anni? Per quanto la riguarda, lei la sua età preferisce non dirla ad alta voce; le fa più onore tenersela per sé. È una domanda che non sopporta, a cui non vuole rispondere, forse le appare un’invasione non autorizzata in una sfera strettamente privata. Che l’età di una persona non sia quella che dicono i dati anagrafici lo riconosciamo tutti; ma Gabre Gabric questo lo sa meglio di chiunque altro.

Un’età indefinita

I suoi anni restarono un mistero per molto tempo, complice la guerra che nella sua scia di distruzione consegnò all’oblio persone ancora in vita. Gabre nacque nei pressi di Mostar, in Croazia, sotto il nome di Ljiubica Gabric: in quella cittadina c’era un ponte, obbiettivo principale degli aerei da combattimento. Fu cento volte distrutto, cento volte ricostruito. Come quel ponte vacillavano le speranze di salvezza della famiglia Gabric: morta la giovane moglie, Martin Gabric decise di mantenere in vita almeno la figlia. Pochi mesi dopo, nel novembre 1923, la piccola Ljiubica salpò dal porto di Trieste a bordo del piroscafo Presidente Wilson. La meta era l’America: venne presa in custodia dallo zio Filippo che si occupò di tutelarla finché non si fossero spenti i fuochi della guerra, una volta cessato ogni pericolo avrebbe fatto ritorno a casa.

Cresciuta nei sobborghi di Chicago, Gabre si considerava americana. Della sua lingua madre non spiccicava parola: di quel Martin Gabric che l’aveva lasciata nel Nuovo Mondo serbava pochi ricordi, nessun legame la teneva unita ai suoi natali se non quello zio Phil, un po’ bislacco, che lei amava più di ogni altro fino a considerarlo, suo malgrado, un papà a tutti gli effetti. A tredici anni compiuti l’illusione si spezzò, Martin Gabric la richiamò in patria: per lei l’impatto fu traumatico. Catapultata in un Paese che dicevano fosse il suo, ma dove non capiva nulla: ogni parola le risultava estranea, per non dire straniera.

L’appartenenza geografica del territorio era incerta: visse con il padre a Zara, in Dalmazia, all’epoca naturalizzata italiana. A Zara ogni giorno veniva proposta un’attività diversa: «Oggi facciamo atletica, domani giochiamo al nuoto. E così via». Ricorda oggi Gabre che in questa città colse il significato della spensieratezza, nelle lunghe corse – quattrocento metri – lungo il ponte principale a gara con l’amico prediletto, Ottavio Missoni. Sempre qui conobbe l’amore per lo sport che divenne il filo conduttore di tutta la sua esistenza.

Nel corso degli spostamenti i suoi documenti erano andati perduti, così per molto tempo la sua data di nascita rimase un enigma: 1914 o 1917? Nessuno si preoccupò di rispondere a questa domanda e l’età reale continuò ad oscillare fra queste polarità, finché non venne la convalida definitiva stabilita in seguito ad un’indagine approfondita. Gli uffici di immigrazione di Ellis Island fornirono la conferma a lungo agognata: 14 ottobre 1914. Dunque, nessuna attenuante, signora Gabric: le candeline quest’anno sono proprio cento.

Il lancio del disco

Fu una coincidenza fortuita quella che fece conoscere a Gabre la sua disciplina o, almeno, lo sport che sarebbe stato a tutti gli effetti il suo, ponendola sul piedistallo della notorietà. Fino a quel momento stava praticando canottaggio con buoni risultati, da poco aveva conquistato il titolo di Campionessa dell’Adriatico, seconda voga nel quattro senza, e tutte le premesse la invitavano a continuare per quella strada. Poi accadde l’incontro-scontro con il disco e tutto cambiò.

Gabre in azione

Gabre in azione

 

L’attrezzo atterrò ai suoi piedi, sul prato dello stadio, mentre Gabre chiacchierava con Ottavio, reduce da un allenamento nella corsa ad ostacoli. Senza pensarci due volte, si chinò a raccogliere il disco e lo scagliò lontano. Una totale naturalezza, una nonchalance strabiliante, quasi si fosse tolta del pulviscolo dal cappotto: gli occhi dei presenti si inchiodarono su di lei strabiliati. Quelle occhiate non le lasciarono scampo: d’un tratto le apparve chiaro chi sarebbe stata. Si trattò di una decisione che non dipese da lei, ma dal corso stesso degli eventi.

I Giochi di Berlino

Tre mesi dopo Gabre Gabric si trovava all’Olympiastadion di Berlino per partecipare a quella che sarebbe stata la sua prima Olimpiade. Le si spalancava all’improvviso un nuovo mondo; lei, atleta alle prime armi con sole due gare alle spalle, si ritrovò tra le finaliste in quello che era un autentico tempio sportivo. Il ricordo che la Gabric conserva di quel giorno tuttavia tradisce qualche amarezza: «Fu una figura barbina», ha commentato nel suo mezzo dialetto. «Faceva freddo quel giorno, pioveva. Avevo le mani gelate».

E c’era l’avversaria, la tedesca Gisela Mauermayer, troppo forte. In quella gara tutto si svolse secondo i piani di Hitler: incontrastata la supremazia della Germania nazista, Gabre assistette impotente al successo della Mauermayer ritrovandosi malgrado ogni sforzo confinata in decima posizione. Magra fu la consolazione di avere accanto la cara amica Claudia Testoni, come lei delusa e quindi del tutto solidale, dato che aveva perso il podio per appena sette millesimi negli ottanta metri ostacoli vinti da Ondina Valla.

Gabre con l'amica Claudia Testoni

Gabre con l’amica Claudia Testoni

 

Una delusione formativa che fu in seguito ricompensata. Grazie alle sue tante primavere Gabre ebbe l’opportunità di vedere il lento capovolgersi della situazione, il rovescio della medaglia: «Dopo la guerra Gisela fu demolita come persona perché aveva la colpa di aver gareggiato per la Germania nazista, mentre io potei continuare la mia carriera sportiva», racconta oggi con una punta orgoglio, ora che lo scorrere degli anni ha reso tutto più chiaro e lei può ricordare quei giorni con lucido distacco.

L’incontro con Calvesi

Alle Olimpiadi di Berlino seguirono quelle di Londra nel 1948, che segnarono la difficile rinascita del dopoguerra. «Non avevamo niente da mangiare noi atleti», ha affermato senza mezzi termini la signora Gabric «ci davano un brodino nero che non ho mai capito cosa fosse. Allora andavamo a chiedere la carne ai sudamericani». I successi di Gabre, al massimo della sua forma, si moltiplicavano: strappò il primato italiano del lancio del disco a Vittorina Vivenza, preparandosi a diventare numero uno assoluta per altre quattro volte nel corso della carriera. Lavorava duro e senza risparmiarsi, ma non ottenne solo vittorie, all’orizzonte si affacciava qualcosa di ben più importante; che sempre con lo sport c’entrava, come tutto nella sua vita.

Dell’incontro che, dopo quello con il disco, fu il più fatale della sua esistenza, Gabre ha conservato il suo personalissimo punto di vista: «Lui era sempre in mezzo ai piedi. All’inizio pensavo solo alla scuola e allo sport, ma lui cocciuto ha avuto ragione e mi ha fatto capitolare». Il “lui” in questione è Alessandro Calvesi, conosciuto a tutti come Sandro, tecnico degli ostacoli che allenò atleti da primato. Divenne suo compagno di vita, ma non le concesse mai di avvicinarsi troppo al “suo” campo. Gabre, appassionata instancabile di qualunque attività sportiva, avrebbe voluto cimentarsi anche nei quattrocento metri, ma il marito glielo impedì: «O lanci o niente». Una decisione che non concedeva alternative, ma permise ad entrambi di non mescolare lavoro e vita affettiva.

Insieme diedero vita ad una stirpe di ostacolisti di alto livello: la figlia Lyana sposò Eddy Ottoz, allievo del padre, e da quel momento l’Olympiastadion di Berlino divenne un palcoscenico per tutta la famiglia. E’ il luogo in cui Gabre aveva disputato la sua prima Olimpiade, dove il genero Eddy infranse il primo record italiano e dove, di nuovo, vent’anni dopo il nipote Laurent ha superato il primato del padre.

Un intenso primo piano della Gabric

Un intenso primo piano della Gabric

 

Il motto di Gabre Gabric, cui è sempre stata fedele, recita «Chi si ferma è perduto». Lei infatti non si è mai fermata, ha continuato a gareggiare perfino a novant’anni compiuti, vincendo, naturalmente. In tarda età si è dedicata all’atletica master stabilendo il record del mondo in tre diverse specialità: peso, disco e giavellotto. Racconta come lo sport le abbia dato la voglia di vivere perfino in mezzo alle macerie di due guerre. Questo ha spiegato ai suoi ragazzi, negli oltre cinquant’anni di insegnamento dedicati all’educazione fisica, materia a suo giudizio indispensabile nella formazione. La passione inesauribile, insaziabile per la vita a Gabre non è mai mancata, motivo per cui continua a praticare sport anche ora, quasi si trattasse di un elisir di eterna giovinezza. Guai a chi osi definirla “vecchia signora.” Neppure “anziana” andrebbe bene.; si tratta di un eufemismo per esprimere lo stesso concetto, lei direbbe così. A cent’anni compiuti il suo viso è liscio e gli occhi accesi come quelli di una ragazzina «Chi è una vecchia signora?», esclama con una voce squillante accompagnata da una risata altrettanto vivace. «Non io!».

Una forza incrollabile, una determinazione appassionata, la stessa di cui parlava il compianto marito nel suo libro Atletica leggera. Il credo incrollabile nello sport che li ha uniti, il culto su cui hanno fondato prima il loro amore, poi le basi solide di una famiglia, è tutto riassunto in queste parole: «Chiunque possegga braccia e gambe può essere atleta e battere, se non altri, se stesso», scriveva Sandro Calvesi. «Ecco il significato più alto del culto dell’uomo».

Alice Figini
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