“Votes for women!”

Emily Davison travolta da Anmer, il cavallo reale

Emily Davison travolta da Anmer, il cavallo reale

 

E il cavallo del re travolse la suffragetta

Il Derby d’Epsom non è solo la corsa di cavalli più prestigiosa del Regno Unito. Fin dalla sua prima edizione, quella del 1780, è anche un appuntamento mondano al quale l’alta società britannica non può mancare, tanto meno in presenza della famiglia reale.

Mercoledì 4 giugno 1913 all’evento prendono parte, tra i cinquecentomila spettatori, anche Re Giorgio V e la Regina Mary. Il loro cavallo in gara è Anmer, montato dal fantino Herbert Jones, che anni prima aveva vinto quel Derby in sella ad altri due purosangue reali, l’indomito Diamond Jubilee – da cui il soprannome di Diamond Jones – e Minoru, entrambi di proprietà del Principe del Galles Alberto Edoardo, il futuro Re Edoardo VIII.

Il percorso – duemilaquattrocento metri – è un tracciato a staffa di cavallo che prevede due rettilinei e una lunga e graduale curva a congiungerli: Tattenham Corner. Proprio lì, nello spazio dietro le transenne riservato alla working class che si gode il raro break dal grigio tran tran londinese fumando e bevendo, ecco lei, Emily Wilding Davison. Non una spettatrice distratta.

La militanza femminista

Quarant’anni, insegnante e istitutrice, Emily aveva coltivato invano il sogno di laurearsi, prima al Royal Holloway College di Londra, abbandonato dopo la morte del padre, poi al St. Hugh’s College di Oxford, dove aveva frequentato le lezioni di Lingua e Letteratura inglese prima di sentirsi dire che no, una donna proprio non poteva conseguire il titolo legale, neanche se la più brillante del corso.

Un ritratto di Emily Davison

Un ritratto di Emily Davison

 

Ma nel 1906 Emily aveva trovato nelle parole di Emmeline Pankhurst, la fondatrice del movimento suffragista dell’Unione Sociale e Politica delle Donne (WSPU), la forza di ribellarsi: «Dobbiamo liberare una metà della razza umana: solo così potremo aiutare l’altra metà a liberarsi». Emily sposa in pieno la causa e i metodi dell’WSPU, e da allora trascorre il resto della sua vita entrando e uscendo di prigione. Se Christabel Pankhurst e Annie Kenney non esitano a rivendicare il diritto di voto alle donne interrompendo in un pubblico incontro il discorso dei liberali Winston Churchill e Edward Grey, lei osa anche di più: nel 1911 irrompe nel Palazzo di Westminster, trascorrendo la notte nella sede della Camera dei Comuni in nome di tutte le donne che non avevano mai potuto accedervi; nel 1912 aggredisce un uomo scambiandolo per David Lloyd George e, non paga, mesi dopo piazza una bomba nel cantiere della casa in costruzione dello stesso Cancelliere dello Scacchiere.

Una mina vagante per l’establishment britannico, una bandiera per le sue compagne di lotta, definite delle «pazze pericolose» dal Ministro dell’Interno Reginald McKenna dopo l’assalto all’Ufficio del Governo che aveva provocato la distruzione della vetrata d’ingresso dell’edificio. La famiglia reale non le sostiene, e loro s’incatenano ai cancelli di Buckingham Palace; la polizia le arresta, e loro rispondono con lo sciopero della fame in carcere, costringendo il Parlamento prima a imporre l’alimentazione forzata, poi a intervenire con uno degli atti più subdoli della sua storia, il Cat and Mouse Act: le si lascia consumersi di fame scarcerandole quando le loro condizioni di salute si aggravano, così da lavarsene le mani in caso di decesso o da arrestarle nuovamente in caso di guarigione. Guai a offrire con una morte dietro le sbarre una martire al movimento.

Ma quel giorno, a Epsom, Emily fa saltare i piani del governo. È libera da poche settimane e di quella corsa proprio non le importa nulla. Non ha puntato un solo centesimo su nessun cavallo, ma riconosce Anmer dai colori della divisa del suo fantino Jones, il rosso e il blu della Casa Reale. Anche lei ha i suoi colori, quelli del movimento suffragista che tingono il foulard avvolto intorno alla vita: il porpora della dignità; il bianco della purezza e della libertà, il verde della speranza. Valori universali per cui Emily e le sue compagne si battono a dispetto della campagna denigratoria dei giornali, che le dipinge come irriducibili virago. La loro lotta è liquidata come una mattana, un capriccio, uno dei tanti del sesso debole. E invece l’unico che le suffragette si concedono è la moda.

Anche Emily, nonostante l’aria austera, non rinuncia a lusingare la propria femminilità con cappelli e piume di struzzo, e gioielli ispirati alle forme dell’Art Nouveau. Le suffragette a Londra hanno perfino un magazzino di fiducia, Selfridge’s, che, pur diretto da un uomo, appoggia il movimento al punto da issarne la bandiera sul tetto, intuendo che le sue clienti, in futuro, sarebbero state soprattutto le donne libere e indipendenti.

Emily si convince che libertà e indipendenza si possano conquistare anche in quel 1913, ma a patto di compiere un’azione che buchi l’immagine, che arrivi dritto al cuore dell’opinione pubblica. Non più scioperi della fame, non più attacchi ai politici, ma un atto dimostrativo di straordinario impatto mediatico. Alla sua amica attivista Mary Leigh che il giorno prima le chiede: «Vai a vedere il Derby d’Epsom?! Come mai?», lei risponde: «Lo capirai domani sera leggendo i giornali».

Un tragico fuori-programma

Alle tre e dieci del pomeriggio i migliori cavalli del Regno Unito sono schierati ai nastri di partenza. Un colpo di fucile dà il via alla corsa, e i destrieri si lanciano al galoppo. All’ingresso di Tattenham Corner sono ancora tutti lì, a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, quando improvvisamente si ode un nitrito e il rumore di un urto violento. Un attimo dopo, riversa a terra c’è Emily priva di sensi accanto a Jones lievemente ferito alla testa, mentre Anmer, illeso, continua la sua corsa senza il fantino. Che cosa è successo in quella manciata di secondi?

Un filmato d’epoca mostra una donna scavalcare la staccionata e gettarsi incontro al purosangue di Re Giorgio, che la travolge ad altissima velocità colpendola al busto. Qualcuno dei testimoni raccontò di averla sentita gridare «Votes for women!», poco prima dell’impatto. Emily venne ricoverata presso l’Epsom Cottage Hospital, dove rimase quattro giorni in coma prima di spirare all’alba dell’8 giugno. Una gara di equitazione si trasformava in una tragedia.

La prima pagina del Daily Schetk il giorno dopo la tragedia

La prima pagina del Daily Sketch il giorno dopo la tragedia

 

Il giorno dopo la suffragetta, come aveva previsto, finì davvero sui giornali, che sulle prime raccontarono l’incidente come un increscioso fuori-programma della competizione sportiva, già di per sé rocambolesca. Il Derby fu infatti vinto dal giovane outsider Aboyeuer – che avrebbe terminato i suoi giorni in Russia durante la Rivoluzione – davanti a Louvois e Great Sport, dopo la squalifica di Craganour, colpevole di aver ostacolato la corsa degli altri cavalli. Di Emily si tornò a parlare anche nei giorni successivi, quando il medico legale formalizzò il decesso come una misadventure, una disavventura. Ma la vicenda assunse presto i contorni del mistero: si era trattato di un suicidio o di un’azione dimostrativa dall’esito infelice?

È certo che Emily avesse provato a togliersi la vita in carcere un anno prima: per sottrarsi a un tentativo di alimentazione forzata, si era lanciata dal balcone della sua cella di Holloway Prison, salvandosi solo grazie a una rete collocata tre piani sotto. Aveva detto: «Niente eccetto il sacrificio di una vita umana potrebbe portare la nazione a comprendere le orribili torture alle quali noi donne siamo sottoposte». Ma allora perché le fu trovato in tasca un biglietto ferroviario di ritorno per Victoria Station? Perché aveva dato la propria adesione a un ballo di suffragette che si sarebbe dovuto tenere quella sera? E, ancora, perché aveva scritto una cartolina alla sorella Laetitia, che viveva in Francia, annunciandole una sua visita pochi giorni dopo quel 4 giugno?

Secondo la sua compagna di lotta Sylvia Pankhurst, Emily avrebbe voluto solo avvolgere Anmer con il suo foulard e far sventolare i colori suffragisti al collo del cavallo reale durante uno degli eventi sportivi più seguiti del Regno, per sensibilizzare i suoi connazionali su una causa nella quale – rimarcò la madre – si era gettata anima e corpo senza averne alcun ritorno personale.

La cerimonia funebre di Emily

La cerimonia funebre di Emily

 

Premeditato, istintivo o accidentale che fosse, quel gesto realizzò le intenzioni di Emily, la martire che il governo aveva cercato di evitare. Il 14 giugno 1913 cinquantamila persone videro il suo feretro percorrere il tragitto da Epsom a Victoria Station su un carro funebre guidato da quattro cavalli neri e accompagnato da sei attiviste in marcia. Seimila suffragette, tra cui tante ex detenute, sfilarono per le vie di Londra – le più giovani in abito bianco, le più anziane in abito nero – in silenzio, rispettosamente, prima di incidere lo slogan «Dreeds, no words» («Azioni, non fatti»), sulla pietra monumentale della cappella in cui Emily sarebbe stata sepolta, nel cimitero di Morpeth.

L’omaggio di Herbert Jones

Herbert Jones, il fantino rimasto ferito, non partecipò alla cerimonia. Mentre trascorreva la sua convalescenza in casa al riparo dal clamore della stampa, fu raggiunto da un telegramma della regina-madre Alessandra, la quale, augurandogli una pronta guarigione, espresse il suo rammarico per l’accaduto, a suo dire conseguenza della «abominevole condotta di quella brutale e lunatica donna».

Ma Jones non si liberò mai di Emily. Perseguitato in sogno per anni dal suo fantasma, nel 1928 partecipò alle esequie di Emmeline Pankhurst deponendo una targa anche in memoria della suffragetta che aveva perso la vita in quel Derby maledetto.

Ci sarebbe voluta una guerra mondiale perché il Regno Unito si rendesse conto di non poter più negare il voto all’altra metà dell’universo. Pure, il suffragio universale in Gran Bretagna fu proclamato solo nel 1928, l’anno in cui ad Amsterdam i Giochi Olimpici furono aperti per la prima volta ad atleti di sesso femminile: curiosamente, i diritti delle donne e lo sport tornavano a incontrarsi lungo una strada che tra mille traversie avrebbero continuato a percorrere insieme, oltre l’incrocio segnato da Emily. Che non sarà stata una campionessa, ma certo aveva saputo correre più veloce del suo tempo.

Graziana Urso
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